di Pierpaolo Vargiu*. C’è un «buco nero» nella riforma costituzionale appena votata dalla Camera, un’occasione persa che peserà come un macigno sulla coscienza della politica nei prossimi passaggi in Parlamento prima della definitiva approvazione.
La riforma costituzionale corregge finalmente molti errori figli dell’utopia devolutionaria del 2001, ma nel settore della sanità il disegno di legge del Governo, marginalmente emendato dalle Camere, non raddrizza un assetto di governance che sempre meno garantisce il diritto alla salute di tutti i cittadini.
Allo Stato rimane infatti «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», mentre alle Regioni viene attribuita la competenza specifica in materia di «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali». Viene infine introdotta la clausola di salvaguardia della «tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, o dell’interesse nazionale» che riserva la facoltà d’intervento dello Stato, su proposta del Governo, in materie di competenza non esclusiva.
È decisamente troppo poco rispetto alle richieste dei diversi stakeholder del comparto sanità (tra cui molte associazioni di medici, infermieri e pazienti) che le Commissioni Affari sociali e bilancio di Montecitorio hanno ascoltato per un anno nel corso dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del sistema sanitario. Come spiegano chiaramente le conclusioni di quel lavoro, approvato da tutti i partiti, «gli auditi hanno lamentato notevoli differenze territoriali nell’efficacia e nell’appropriatezza delle prestazioni sanitarie, sollecitando un’azione di coordinamento a livello centrale più forte e mirata di quella prevista e attuata con la riforma del Titolo V, idonea a garantire un’erogazione dei livelli essenziali di assistenza omogenea su tutto il territorio nazionale, in modo da eliminare le differenze regionali e infraregionali».
In parole semplici, mentre il principio del diritto alla salute trova grande considerazione nella Carta costituzionale e viene addirittura definito come «fondamentale» all’articolo 32, nella realtà l’accesso equo e universale alle cure (che da tale diritto dovrebbe derivare) è negato nei fatti dall’esistenza di ventuno sistemi sanitari diversi sul territorio nazionale.
L’hanno confermato di recente anche le griglie Lea, anticipate da alcune Regioni vicine al voto, che fotografano un’Italia divisa a metà nella qualità dei servizi sanitari: in testa Toscana ed Emilia Romagna, buio sempre più profondo man mano che si analizzano le performance delle Regioni del Sud. Siamo insomma al «si salvi chi può». In questa Italia che ha un reddito pro capite annuo di 39.600 euro a Bolzano e di 15.500 euro in Calabria, solo le Regioni più ricche riescono a garantire servizi di qualità. Ai più poveri, che aumentano sempre, non resta che mettersi in coda e affidarsi ai viaggi della speranza, che spogliano ancora di più i sistemi regionali più deboli.
Per spezzare l’ipocrisia del «tutto normale, tutto va bene», come sollecita anche la Commissione Sanità del Senato che chiede centralità per i temi della salute nel dibattito politico, è stato presentato un emendamento, promosso da Favo e molte altre associazioni di pazienti, per modificare il Titolo V attribuendo in maniera esplicita allo Stato il potere d’intervento perequativo a tutela della salute. Nulla di fatto: la proposta è stata bocciata anche per la resistenza delle Regioni che vedrebbero messi in discussione i criteri di programmazione di gran parte delle risorse assegnate (nelle Regioni a statuto ordinario, la sanità vale circa il 70% del bilancio complessivo).
La battaglia per il cambiamento dei macroprocessi sghembi che governano la sanità italiana rappresenta dunque una questione ancora clamorosamente aperta. A combatterla in trincea deve restare la buona politica, per evitare che a cadere sul campo siano i milioni di cittadini che rischiano di essere sempre più tagliati fuori da cure adeguate, in un sistema sanitario che sta creando in maniera inquietante e crescente italiani di serie A e italiani di serie B.
*presidente commissione Affari sociali della Camera – Il Sole 24 Ore sanità – 19 marzo 2015