Per l’economista del Ceis Tor Vergata, Federico Spandonaro, è ancora presto per capire in che modo il Governo intenda intervenire su quei 97,6 miliardi di spesa rivedibile individuati in sanità.
Ma l’obiettivo, è convinto Spandonaro, è quello di individuare nuove voci di spesa da tagliare. Anche perché se l’Italia riesce a garantire ancora oggi una buona sanità pure spendendo il 20% in meno degli altri Paesi europei, significa che un lavoro di contenimento della spesa, di riduzione degli sprechi e di ottimizzazione delle risorse è già stato fatto e non c’è più molto da recuperare su questo fronte. Resta un solo modo per ridurre la spesa sanitaria. Ed è tagliare i servizi o spostare alcune voci di spesa dalla sanità pubblica ai bilanci privati delle famiglie. Ma se la cifra che si vuole recuperare è consistente, questo significa mettere a rischio l’equità del diritto alla salute.
Professor Spandonaro, secondo il Rapporto del Governo, in sanità ci sarebbero oltre 97 miliardi di spesa rivedibile, in pratica ben il 33% del totale della spesa pubblica italiana oggetto della spending review. Eppure in sanità veniamo da lunghi anni di tagli e di politica di appropriatezza e ottimizzazione di risorse. A cosa sono serviti?
Anzitutto va sottolineato che “spesa rivedibile” significa che sarà soggetta ad analisi e questo si può fare su qualsiasi cifra, il che non significa che poi ci saranno interventi di questo livello, perché significherebbe smettere di fare sanità in Italia. Sicuramente il Governo ha già individuato delle criticità, ma allo stato attuale la documentazione fornita è così sintetica da non lasciare chiaramente capire cosa il Governo intenda fare di quei 97 miliardi. Non sono d’accordo, però, con chi dice che la spesa sanitaria sia eccessiva. E’ più bassa che in tutti gli altri Paesi paragonabili all’Italia. In questi anni, inoltre, qualcosa è stato fatto sia in termini di contenimento che di ottimizzazione. Forse non in modo omogeneo in tutte le Regioni, ma è stato fatto. Il vero problema, secondo me, non sta nella spesa sanitaria. Sta nel fatto che l’Italia è un Paese senza crescita economica.
Il presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, puntava però il dito proprio sulla sanità, affermando che negli ultimi 5 anni la spesa sanitaria sia cresciuta del 50%…
Questo modo di esporre i dati espone a misinterpretazioni: quel 50% corrisponde ad un incremento medio di circa il 4,2% all’anno, che scende al 2,2% al netto dell’inflazione. Una percentuale che rientra assolutamente nella norma, anche considerati i fattori di costo che possono avere inciso, come l’ammodernamento tecnologico e l’invecchiamento.
Se il PIL reale fosse cresciuto anch’esso del 2% annuo (obiettivo non assurdo) sarebbe anch’esso aumentato del 50% e non saremmo qui a dibattere; il problema è che il PIL non cresce e se per mantenere il rapporto con il PIL pretendiamo che l’incremento della spesa sanitaria sia ancora più basso di quanto lo sia adesso, allora bisogna ammettere che vogliamo ridurre la sanità, almeno rispetto agli altri Paesi europei.
Quindi, secondo il suo parere, non c’è una spesa rivedibile, piuttosto l’intenzione è quella di ulteriori tagli?
Io sono dell’opinione che sulla spesa si possa sempre discutere, quindi non trovo nulla di errato nella spending review come strumento di lavoro. Per quanto riguarda la sanità, però, credo che i margini di azione siano davvero limitati. A meno che non si decida di tagliare i servizi o spostare una consistente quota di spesa sui bilanci delle famiglie italiane, ad esempio aumentando i ticket o decidendo che l’assistenza farmaceutica o la specialistica escono dal Ssn.
Non potrebbe invece trattarsi di sprechi?
La spesa sanitaria italiana pro-capite oggi è del 20% inferiore a quella europea. Se noi siamo inefficienti, gli altri sono un disastro!
Gli sprechi sicuramente esistono ancora e si può sicuramente fare meglio con i soldi che si stanno spendendo, ma fare meglio produce certamente qualità ma non automaticamente risparmi. Basta guardare quello che succede nelle Regioni virtuose, dove i servizi sono di buon livello, ma si fa comunque fatica a garantire quei servizi con l’attuale quantità di risorse. Lo dimostrano anche i costi standard, che sono stati elaborati solo pochi mesi fa: neanche la Regione più virtuosa di Italia può permettersi finanziamenti inferiori a quelli che riceve oggi.
Non è vero, quindi, che la qualità produce risparmi?
Ritengo sia un falso mito smentito dal fatto che le Regioni dove si spende meno sono solitamente quelle in cui la sanità è peggiore. La qualità costa. Per dirla in modo semplice, se si vuole un hotel a cinque stelle, bisogna spendere molto.
La spending review di Monti, dunque, non la convince?
Credo che si debba capire meglio come il Governo voglia metterla in pratica. Il fatto che l’impegno per la Sanità nel bilancio dello Stato aumenta, mentre quello per l’istruzione diminuisce è un tema che va onestamente affrontato, facendo scelte strategiche in funzione della crescita e decidendo le priorità, Ma in verità non credo che l’idea della spending review sia quella di spendere diversamente, ovvero spostare risorse da un settore di Welfare ad un altro, quanto di spendere meno. Se questo è l’obiettivo, l’unica cosa perseguibile è trasferire alcune voci di spesa pubblica sulla sanità integrativa o sulla spesa privata delle famiglie. Tuttavia mi sembra una prospettiva in cui nessuno si è avventurato e anche molto pericolosa in termini equitativi.
In un’intervista rilasciata nei mesi scorsi al nostro giornale, lei sosteneva che la migliore soluzione fosse un universalismo selettivo….
Selettivo sì, ma se parliamo di 10 miliardi. Fare selezione per recuperare 97 miliardi significherebbe “selezionare la totalità”, e quindi non si tratterebbe più di universalismo selettivo ma di cancellare il Ssn.
Secondo il documento del Governo, 28 di quei 97 miliardi sarebbero rivedibili nelle retribuzione. Metteranno quindi mano agli stipendi?
Mi sembra impossibile. I contratti sono fermi da anni e il turn over ha creato danni organizzativi che sono stati peggiori dei benefici ottenuti con i risparmi. Mi sembra peraltro in controtendenza rispetto alla volontà di trasferire la sanità dall’ospedale al territorio, perché questo vuole evidentemente dire avere un po’ meno TAC e un più personale.
Una questione tecnica: il Governo parla di medio termine, ma non quantifica questo medio termine. Come si traduce, in economia?
Direi in tre/cinque anni.
Quello della sanità territoriale è un esempio di quei progetti di cui si parla da 20 anni e che ancora non sono arrivati a conclusione, e il Governo pensa di rivedere 97 miliardi di spesa sanitaria in 3-5 anni?
L’auspicio è che gli interventi saranno mirati, individuando voci dove si possa veramente risparmiare senza intaccare i servizi, ma il timore è che si tratti, anche questa volta, di misure di emergenza e quindi di tagli. Anche perché, ribadisco, il vero problema dell’Italia non sono gli sprechi ma il differenziale di (non) crescita del Pil rispetto agli altri Paesi con cui amiamo confrontarci. È sulla crescita che il Governo dovrebbe intervenire, non solo sulla spesa, come si è fatto negli ultimi anni. Tornando all’esempio di prima, se nel bilancio dello Stato l’onere della sanità è cresciuto negli ultimi anni, mentre quello dell’istruzione è sceso. Personalmente la ritengo una scelta criticabile, perché senza l’istruzione, l’economia è destinata a restare ferma e il Paese è destinato a morire. Ma anche in questo caso vale poco ragionare su quanto si spenda per la sanità o quanto si spenda per l’istruzione, perché parliamo comunque di quote su un bilancio statale “povero”. Per quanto si voglia investire, quindi, c’è ben poco da investire.
Se il Pil non cresce, quindi, non c’è via d’uscita per questa crisi…
Certamente, anche perché alla mancata crescita del Pil si unisce l’evasione fiscale e i pesanti oneri del debito pubblico, il quale implica che una parte del bilancio del Paese che se ne va in interessi passivi. È evidente che non si può pretendere di avere una sanità o altri servizi alla pari degli altri Paesi quando si è più poveri. E d’altra parte, se si tagliano ulteriormente i finanziamenti il gap può solo che allargarsi.
La spending review, secondo lei, può diventare una prova generale dei costi standard?
Assolutamente no. La logica mi sembra diversa. Peraltro mi sembra che dopo tanto clamore, anche i costi standard stiano rischiando di finire nel nulla.
Dovrebbero partire nel 2013…
Sì, ma vanno già tutti rimessi in discussione, perché erano “calcolati” su un livello di finanziamento che invece è già stato rivisto al ribasso.
Sarà quindi necessario ricalcolare tutto?
C’è da rimettere ordine. E non parlo di costi standard, ma di un ragionamento più ampio. La difficoltà è assolutamente chiara a tutti, ma mi sembra che si insista con la tendenza a voler trovare soluzioni facili che poi, però, non risolvono davvero le cose. Se si vuole invertire la rotta, va fatto un ragionamento più profondo, sacrificando le spese improduttive per investire, invece, in quei settori che permetteranno all’economica di ricominciare a crescere: il dibattito che si deve aprire, con molta onestà intellettuale e senza pregiudizi, è quali aree dell’intervento pubblico sono efficienti e efficaci da un punto di vista equitativo, e quali no: e nessun settore, quindi neppure la Sanità, può tirarsi fuori.
quotidianosanita.it – 8 maggio 2012