La Stampa. In un Paese che invecchia e quindi sempre più pieno di malati cronici da dover assistere dovrebbero essere l’asse portante della sanità. Ma se i medici sono in fuga da corsie e ambulatori, gli infermieri sembrano proprio essere stati inghiottiti da un buco nero. Perché di loro ce ne è bisogno in numero sempre maggiore e invece non solo se ne vanno in pensione a valanga come i medici per raggiunti limiti di età, ma scoraggiati da paghe del 40% inferiori a quelle degli altri Paesi europei e con la prospettiva di dover lavorare sotto stress a causa di turni di lavoro impossibili i giovani cominciano ad allontanarsi dalla professione, snobbando le facoltà di scienze infermieristiche.
Così mentre il ministro della Salute, Orazio Schillaci, si arrovella per far partire entro il 2026 Case e ospedali di comunità, di infermieri che in quelle strutture dovrebbero avere un ruolo di primo piano non se ne trovano più. Secondo una memoria della Corte dei Conti allegata alla Nadef 2022 oggi come oggi ne mancano almeno 65mila, equamente divisi tra ospedale e territorio. Ma a questi ne vanno aggiunti altri 20mila, che secondo i calcoli della Fnopi, la federazione degli Ordini infermieristici occorrono per far funzionare le nuove strutture territoriali al netto dei 10mila che già lavorano in quelle esistenti in alcune regioni italiane. Un numero in questo momento impossibile da reperire nel mercato, tanto più che ne servono anche per far funzionare i posti letto di terapia intensiva e sub intensiva che si sono creati in fretta e furia durante la pandemia.
Quanto siamo messi male lo dicono i confronti internazionali. Secondo i dati Ocse oggi in Italia operano 6,2 infermieri ogni mille abitanti, contro una media europea dell’8,8, ma con la Germania che è a 13, 9 e la Francia a 11, 1. Il confronto diventa però ancora più impietoso se si considera che in Italia abbiamo la popolazione più anziana d’Europa. E mentre da noi ci sono 48,9 infermieri ogni mille over 75, in Francia sono 113,4, in Germania 106,7, nel Regno Unito 96,4 e anche la Spagna che in valori assoluti ne ha appena meno di noi, quando si fa il confronto sulla popolazione anziana sta messa meglio con 62 infermieri ogni mille ultra settantacinquenni. Questo costa fatica ai professionisti che devono farsene carico, tanto che la metà di loro accusa di essere in burn out, ossia sotto stress.
Ma a pagarne le conseguenze peggiori sono proprio gli assistiti. Oggi in media ogni infermiere ne ha in carico 12. Il numero ideale sarebbe sei. E da quota 10 in su, informa uno studio pubblicato sul prestigioso British Medical Journal, il tasso di mortalità sale del 20%. Se questo è l’attuale stato dell’arte le prospettive non sono certo migliori. La fuga all’estero sembra inarrestabile. Dal 2000 al 2018, in 18 anni sono stati 29.826 a varcare il confine, attratti da stipendi e possibilità di carriera migliori. In pratica circa 1.600 l’anno. Ora in soli tre anni, dal 2019 al 2021, a espatriare soprattutto nel Regno Unito, dove i nostri infermieri sono apprezzatissimi, sono stati 17.809, pari a circa seimila l’anno, quasi quattro volte tanto che in passato.
Ma a preoccupare maggiormente è la crisi di vocazioni. «Da tre anni abbiamo 10 mila laureati l’anno contro i 12 mila dell’era pre-Covid, che ha anche frenato i corsi di studio impedendo di fare il tirocinio obbligatorio in ospedale», spiega la presidente Fnopi, Barbara Mangiacavalli, che comunque punta l’indice soprattutto contro la poca attrattività della professione in Italia. A complicare tutto, così come per i medici è poi la «gobba pensionistica», che da qui al 2027 farà abbandonare la professione a 21mila infermieri, mentre i giovani pronti a rimpiazzarli saranno appena la metà.
Con questi numeri è chiaro che far partire entro il 2026 le Case e gli Ospedali di comunità senza perdere i 7 miliardi stanziati dal Pnrr resta un rebus. Il ministro Schillaci sta mettendo a punto le sue mosse, che prendono spunto anche dalle proposte della Fnopi: prevedere per gli infermieri così com’è per i medici una specializzazione universitaria, che secondo la Mangiacavalli «aprirebbe anche nuove prospettive di carriera»; creare una figura intermedia tra gli infermieri e gli OoSs, gli operatori socio sanitari che non mancano nel mercato e che potrebbero essere ulteriormente formati per ricoprire funzioni più sanitarie, anche se meno complesse. «Ma per superare l’impasse – afferma sempre la presidente Fnopi– servirà anche remunerare le prestazioni aggiuntive rese non solo per abbattere le liste di attesa ma anche per avviare le nuove strutture territoriali, eliminando del tutto il vincolo di esclusività con l’Ssn». Ossia lasciando liberi gli infermieri del pubblico di lavorare anche privatamente. Cosa che a leggere i numeri di una ricerca del Censis di qualche tempo fa in molti già fanno. Sono infatti 12,6 milioni gli italiani che si fanno assistere a casa da un infermiere spendendo oltre 6 miliardi l’anno di tasca propria. Meno comunque di quel ben più nutrito esercito di oltre 24 milioni di pazienti che una prestazione infermieristica l’hanno richiesta a chi infermiere non è. Parenti e badanti che armeggiano con cateteri, salvo poi vedere la fila di anziani con infezioni alle vie urinarie in pronto soccorso. L’altra faccia di un buco nero nel quale alla fine a finire inghiottiti sono gli assistiti. —