di Salvo Intravaia. Il sorpasso appena avvenuto nell’università italiana è storico e dimostra l’efficienza dei nostri atenei, anche se il Belpaese resta in coda alla classifica internazionale per giovani laureati. Anzi, retrocede di qualche posizione rispetto al 2000. Ma secondo i dati forniti dall’Anagrafe degli studenti del Miur — il mastodontico ministero guidato da Maria Chiara Carrozza — e confermati dall’Istat, per la prima volta dal dopoguerra il numero di laureati sfornati dal nostro sistema universitario supera le new entry dello stesso anno accademico.
Nel 2011/2012, a fronte di 280.164 nuovi ingressi si sono registrati infatti 291.688 laureati. Un dato che, dopo la raffica di tagli imposti dalla riforma Gelmini e le innumerevoli proteste degli ultimi anni, fa ben sperare. Nel 2010/2011 le matricole superavano ancora di seimila unità i laureati.
Atenei più efficienti o semplice calo degli immatricolati? Forse tutti e due gli effetti. Perché se è vero che in cinque anni le immatricolazioni sono diminuite di 50mila unità è anche vero che i laureati — complice la riforma del 3+2 entrata in vigore nel 2000/2001 — in meno di tre lustri sono quasi raddoppiati. Luigi Berlinguer, ministro dell’Istruzione proprio quando il primo governo D’Alema varava la riforma, non riesce a nascondere la soddisfazione. «Le statistiche stanno sconfiggendo i soldati di sventura che difendevano il passato», dice Berlinguer. L’ex inquilino di viale Trastevere ricorda che fare passare la rivoluzione del 3+2 non è stato facile. «La riforma — continua — è passata nonostante una
buona parte del mondo accademico fosse contrario. Ma chi difendeva il vecchio sistema difendeva l’enorme sacca di dropout che in quel momento produceva l’università » . Nel 1997/1998 a fronte di 320mila immatricolati gli atenei italiani riuscivano a laureare appena 140 giovani. «Quella nostra è stata la prima riforma dell’università che ha articolato i livelli di studio. Un sistema inventato dagli anglosassoni e che paga perché la società chiede questo. Questa nuova articolazione — conclude Berlinguer — si confà all’Europa contribuendo anche a creare un sistema universitario europeo». «Dal dopoguerra ad oggi — spiega Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori — la popolazione studentesca è cresciuta di circa sei volte, è quindi normale che all’inizio gli ingressi all’università fossero di gran lunga superiori alle uscite. Adesso siamo arrivati a regime». Per Paleari sono tre i fattori che hanno contribuito al sorpasso. «La riforma del 3 più 2, il calo che purtroppo ha interessato gli immatricolati negli ultimi anni e le politiche universitarie che hanno indotto gli studenti a laurearsi prima, evitando di sostare inutilmente all’università. Penso — dice il presidente della Crui — alle politiche sulle contribuzioni: i fuori corso pagano tasse più alte di coloro che sono in regola».
Ma, nonostante il sorpasso, siamo ancora in coda alla classica europea per numero di laureati. In Italia, la quota di 30/34enni in possesso di un diploma di laurea è del 21,7 per cento, contro una media Ue a 28 paesi del 35,7 per cento. Nel 2012, secondo Eurostat, il nostro Paese occupava il penultimo posto, seguito soltanto dalla Turchia. Nel 2000, ci seguivano anche la Romania, il Portogallo, la repubblica Slovacca e Malta, che in pochi anni ci hanno superato. Secondo Paleari, “occorre avviare una riflessione di sistema per vedere quali sono i colli di bottiglia”. «Quando si fa fatica a modificare i dati vuol dire che occorre intervenire sui fattori strutturali, anche dell’economia di questo paese». Ma gli studenti non sono d’accordo. «Il vero dato eclatante è il gigantesco crollo delle iscrizioni — meno 20 per cento in dieci anni — che la dice lunga sulla fallimentare attuazione italiana del sistema 3+2», replica Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Unione degli universitari, «tanto più che nel conteggio di questi immatricolati non sono conteggiati i 100mila iscritti per la prima volta ai corsi di laurea magistrali biennali. Il giudizio politico — conclude Scuccimarra — sullo stato e la gestione dell’università italiana si può riassumere nel tasso di passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università, che dal 66,3 per cento del 2007 è passato al 58,2 per cento del 2012: il vero volto di un paese che sta rinunciando a basare il proprio sviluppo sulla conoscenza e sull’innovazione».
la Repubblica – 3 gennaio 2014