Il Corriere del Veneto. Solo l’11,4% dei medici ospedalieri veneti, contro il 28,4% di media nazionale, continuerebbe a lavorare nel sistema pubblico. Ha sorpreso anche la Cimo, il sindacato di categoria che l’ha promosso, il risultato del sondaggio in questa regione meritevole di aver catalizzato la maggiore adesione, con un campione di 583 camici bianchi. Il 35,5% fuggirebbe all’estero, il 22,5% sogna la pensione, il 16,4% preferirebbe passare al privato, il 14,2% valuta la libera professione e il 24,2% è pronto addirittura a cambiare mestiere. Un dramma, vista la carenza di 1300 specialisti già rilevata nel 2018 e accentuata dall’emergenza Covid, che ha ucciso 359 medici in Italia e costretto le Usl a sospenderne centinaia dal servizio(820 nel Veneto) perché no vax.
«La pandemia ha esasperato una situazione già critica, aumentando a dismisura i carichi di lavoro per un organico che continua a diminuire — sottolinea Giovanni Leoni, segretario regionale della Cimo — i turni sono sempre più pesanti. L’82% della categoria è costretto a straordinari non pagati, faticando ben più delle 38 ore settimanali previste dal contratto. Il 24% ne copre oltre 48, soprattutto compilando atti amministrativi, ai quali viene sacrificato tempo da dedicare all’ascolto dei pazienti e ai riposi. Il 52% dei medici conta tra 11 e 50 giorni di ferie accumulate e l’11% più di 100, non si riescono nemmeno a godere i riposi tra un turno e l’altro. Senza contare lo stress e il pericolo potenziati dal Covid, che però non vengono riconosciuti. Le richieste di salute negli ultimi due anni sono lievitate e i colleghi in prima linea prendono gli stessi soldi di chi lavora in reparti non Covid — denuncia Leoni —. Non c’è da sorprendersi se il 17,3% ritiene pessima la qualità della propria vita, se tanti camici bianchi si dimettono a due anni dalla pensione, se radiologi e oculisti traslocano nel privato, gli anestesisti preferiscono lavorare a gettone per le cooperative e i colleghi del Pronto Soccorso vanno a fare i medici di famiglia». Il 62% del campione denuncia stress psicofisico elevato, il 56% un rischio professionale alto, secondo il 38% allargato alla famiglia. La pandemia ha peggiorato le aspettative nel futuro: solo il 10% degli ospedalieri spera nel miglioramento della professione, il 7% nello sviluppo della carriera e il 2% in un aumento di stipendio.
Ma a colpire di più sono le risposte dei giovani, che sembrano aver perso la speranza: analizzando le risposte di chi ha iniziato a lavorare nel Sistema sanitario nazionale da meno di cinque anni, solo l’1% auspica un avanzamento di carriera e stipendio. «Corrisponde pienamente al quadro di fuga dei medici nel privato o all’estero che denunciamo da anni — incalza Giampiero Avruscio, presidente di Anpo Padova (primari) — con la quota 100 i più anziani vanno invece in pensione, mentre altri puntano alla libera professione. I giovani non si presentano nemmeno ai concorsi, la qualità della vita è davvero pessima in ospedale. Se questo è il valore che lo Stato dà al lavoro del medico, significa che la salute non è importante. Eppure la pandemia la stanno gestendo gli ospedali pubblici e se i medici li abbandonano chi ci rimette sono i cittadini. La politica è cieca e quando le cose non vanno, i pazienti se la prendono con noi». «Le istituzioni non possono restare sorde al grido d’allarme che arriva con forza dai colleghi in corsia — chiude Leoni — i medici meritano risposte concrete. La prima occasione può essere il rinnovo del contratto nazionale di lavoro e ci auguriamo che le trattative inizino a breve».