di Dario Di Vico. L’eredità sta cambiando. E il motivo è semplice: attorno sono mutate tante condizioni di contesto come l’allungamento della vita media, la demografia, l’apartheid del mercato del lavoro che penalizza i giovani. Si affermano così due esigenze nuove: trasferire prima della morte risorse alle nuove generazioni e lasciare soldi al non profit da parte degli anziani senza figli.
Entrambe in qualche maniera cercano di intervenire sulle disuguaglianze, direttamente passando risorse ai discendenti nel tempo giusto, indirettamente aiutando le organizzazioni del terzo settore. Diventa fondamentale avere l’eredità quando si sta progettando il proprio itinerario di vita e quando maturano scelte chiave come frequentare un costoso corso universitario, comprare un appartamento oppure iniziare un’attività economica. È a questo punto che i nonni o i genitori possono intervenire just in time e non rimandare tutto al post mortem quando probabilmente il destino dei figli/nipoti è già irrimediabilmente segnato in termini di disagio abitativo o di esclusione sociale. Persino l’economista francese Thomas Piketty nel suo voluminoso studio sul capitale ha dedicato alla questione alcune pagine analizzando l’età media dei deceduti e degli eredi in Francia. «Nel XIX secolo si ereditava attorno ai 30 anni, nel XXI si erediterà attorno ai 50 e questo perché l’età media al momento della nascita dei figli si è stabilizzata nel lungo periodo attorno ai 30 anni ed è quella che viene chiamata la durata delle generazioni».
C’era una volta la nuda proprietà, uno strumento di mercato che serve a far sì che gli anziani possano rendere liquido il valore dell’immobile in cui vivono vendendolo ante mortem . Lo strumento non ha mai sfondato per un preciso motivo: è una cinica scommessa sulla durata della vita dei venditori, più corta è più chi ha comprato entra in possesso del bene prima e quindi paga meno. La fissazione del prezzo di vendita è poi legata a tutta una serie di calcoli sulle aspettative di vita degli stessi venditori che comunque non rendono facile l’intera operazione. Spiega Luca Beltrametti, docente di economia all’università di Genova: «È vero la nuda proprietà non si è mai affermata perciò il legislatore è intervenuto nel 2015 creando la norma del prestito vitalizio ipotecario. Che rende più facile l’idea di una trasmissione intergenerazionale della ricchezza nei tempi giusti».
È chiaro che l’aiuto degli anziani ai propri familiari più giovani avviene in tanti modi, sotto forma di aiuti cash, regali, sostegni di welfare. Ma si tratta di trasferimenti che non toccano il patrimonio che in Italia per gli anziani è quasi totalmente fatto di case. Dei 5 mila miliardi che grosso modo vale il patrimonio immobiliare circa il 60% è in mano agli over 65, in più è costituito da appartamenti di ampia metratura e spesso situati in zone centrali delle città, riuscire a mettere in circolo queste risorse prima della morte dei loro possessori è un’operazione che ha una valenza quasi di sistema. Non risolve certo i nodi della disuguaglianza giovanile, della mancata mobilità sociale ma può rappresentare una sponda interessante per le politiche pubbliche di redistribuzione, anche perché si tratta di trasferimenti che avvengono nell’ambito della singola famiglia e quindi in un ambiente altamente fiduciario.
In cosa consiste il prestito vitalizio ipotecario? Lo strumento è ancora poco conosciuto perché i decreti attuativi sono di qualche mese fa e finora solo quattro banche (Monte dei Paschi, Intesa, Unicredit e Banca Popolare di Sondrio) hanno cominciato a utilizzarlo. Il nonno ottiene dagli istituti di credito una somma in contanti pari mediamente al 30% del valore del suo immobile (si può arrivare anche al 60%) e la trasferisce ai nipoti che possono utilizzarla per aprire un ristorante, far partire una startup, pagarsi le spese universitarie all’estero, acquisire una licenza taxi o magari comprarsi un monolocale dove andare a vivere. L’anziano può decidere di non pagare nulla fino al giorno della morte. A quel punto tra la banca e gli eredi si apre un confronto: i giovani hanno 12 mesi per rimborsare il prestito avuto negli anni precedenti con l’aggiunta di interessi e spese e in caso positivo mantengono il possesso della casa dei nonni. Se non hanno i soldi per chiudere l’operazione scatta l’opzione B, la vendita della casa da parte delle banche che rientrano dei soldi del prestito e girano agli eredi il surplus. Il meccanismo è garantito da una perizia indipendente che obbliga le banche a non svendere l’immobile lasciando all’asciutto gli eredi. In questo modo si compra il tempo. Spiega Claudio Pacella, fondatore di 65plus, una società che fa consulenza alle banche per prodotti finanziari per la terza età: «Con la nuda proprietà la vendita anticipata era irreversibile, qui invece gli eredi non rinunciano alla casa dei nonni che resta in famiglia e comunque hanno avuto finanziamenti al momento giusto, quando servivano veramente». In più il fatto che la casa possa restare in famiglia responsabilizza sulla manutenzione gli inquilini, che pur anziani non la lasciano andare. È presto per sapere se questo nuovo strumento finanziario funzionerà ma dai primi mesi arrivano segnali incoraggianti. Esiste ovviamente un’altra strada più tradizionale per trasmettere ricchezza agli eredi ed è quella delle donazioni dal notaio. Non ci sono però informazioni certe sul flusso e le sensazioni sono divergenti. «L’unico dato a cui far riferimento — dice Arrigo Roveda, presidente del Consiglio notarile di Milano — è quello Istat sui trasferimenti a titolo gratuito che è spurio perché comprende tutte le forme, non solo le donazioni. Ebbene nel 2015 e nel primo semestre 2016 il trend fa segnare -10%». Comunque secondo uno studio dell’università di Bologna oggi 9 startup su 10 sono finanziate dai genitori e dai parenti.
Finora abbiamo parlato di anziani con eredi ma le statistiche ci dicono che aumenta il numero di coloro che muoiono senza persone di famiglia a cui trasferire la ricchezza accumulata. Secondo il professor Gian Paolo Barbetta che per conto della Fondazione Cariplo ha curato uno studio, «nell’arco dei prossimi 15 anni è destinato a essere trasferito mortis causa circa un quinto della ricchezza netta del Paese. All’interno di tale flusso appare ragionevole immaginare che il valore potenziale dei lasciti al terzo settore corrisponda all’1% di quell’ammontare. In Italia il valore economico di tale ricchezza potrebbe oscillare tra i 100 e i 129 miliardi, nella sola Lombardia potrebbe attestarsi a 12 miliardi». Una somma che ovviamente aiuterebbe il non profit a dotarsi delle risorse necessarie per intervenire sulla disuguaglianza non solo generazionale. «Per le organizzazioni del terzo settore è sicuramente una sfida perché mobilitare questa ricchezza significa non solo attrezzarsi operativamente sul fundraising ma anche saper spiegare ai donatori il valore della propria azione» aggiunge Barbetta. Segnali positivi di un dialogo tra anziani e terzo settore vengono da una ricerca del comitato Testamento Solidale con il Consiglio nazionale del notariato che segnala una crescita dei lasciti filantropici a due cifre dal 2014 in poi. Dei 100 mila testamenti registrati ogni anno 9 mila appartengono a questa categoria. Donano di più le donne, la media è sotto i 20 mila euro e solo l’8% è sopra i 100 mila euro e la motivazione principale di questa filantropia dal basso è avere condiviso in vita con il non profit un’esperienza di carità.
Il Corriere della Sera – 4 dicembre 2016