La galassia delle società controllate è sempre più vasta: nel 2012 gli enti partecipati dallo Stato o dagli enti locali sono cresciuti dell’8%, raggiungendo quota 7.771. Numeri che si ricavano dal database del ministero della Pa con tutti i risultati su enti di Stato, Comuni, Regioni e Province.
Per gestirli occorrono 19mila tra presidenti, amministratori e consiglieri, più migliaia di altri dipendenti, che costano complessivamente 15 miliardi di euro. Basti pensare che nell’azienda forestale della Calabria sono impiegati oltre 5.600 addetti con un costo di 162 milioni. Nel frattempo, gli annunciati tentativi di chiusura, razionalizzazione, accorpamento e privatizzazione si trascinano di proroga in proroga, senza che niente di quanto promesso accada.
È il quiz di questi giorni: quante sono le società pubbliche? Se lo è chiesto il Parlamento, alle prese con la conversione del decreto 101 sulla pubblica amministrazione, in cui erano contenute anche norme per ricollocare il personale in esubero degli enti controllati da Stato ed enti locali. Quelle disposizioni, alla fine, sono state espunte e saranno ripresentate nella legge di stabilità. Uno dei motivi del ripensamento è proprio l’incertezza – come ha spietato Linda Lanzillotta, senatrice di Scelta civica, partito che più ha spinto per stralciare la norma dal decreto legge – sui confini della galassia delle partecipate.
Una stima della Corte dei conti le contava in 5.300. Invece, sono molte di più: sfiorano quota 8mila. Per l’esattezza – secondo i calcoli del ministero della Pubblica amministrazione, che può usufruire della propria banca dati Perla Pa – nel 2012 tra società e consorzi si arrivava a 7.771 enti. Un’enormità, dunque, anche rispetto alle previsioni dei giudici contabili. E quel che più stupisce – nonostante gli annunci di tagli e privatizzazioni che si susseguono ormai da anni (si veda il servizio nella pagina precedente – è che il numero è in crescita. E non di poco, perché dopo tre anni (2009, 2010 e 2011) in cui ci si è tenuti sulla soglia dei 7.100 enti, l’anno scorso l’incremento è stato dell’8 per cento.
Anche a voler tener conto di una percentuale di mancate risposte da parte delle pubbliche amministrazioni – che hanno l’obbligo di comunicare al ministero i dati sulle proprie partecipate, ma quel dovere non è sorretto da alcuna sanzione in caso di inadempienza – la cifra prefigura un universo vastissimo, finora in gran parte inesplorato, in cui c’è il sospetto (che ormai è una certezza) allignino non pochi sprechi.
Gli altri numeri della costellazione non fanno che confermare tale ipotesi. Si prendano i consigli di amministrazione, dove siedono più di 19mila persone, tra presidenti, amministratori delegati e consiglieri. Anche in questo caso, si è registrato un aumento, seppure di gran lunga più contenuto rispetto a quello degli enti: nel 2012, infatti, nei Cda ci sono state solo cinque poltrone in più.
Ma ciò che più dà la dimensione del fenomeno senza freni delle partecipate è il costo del personale. Finora non si aveva contezza di quanti zeri occorressero per scrivere la cifra relativa a stipendi, gettoni di presenza, indennità, emolumenti vari. Certo, non era difficile ipotizzare che – date le stime del numero degli enti – non bastassero le centinaia di migliaia. Ebbene, si va ben oltre: si superano i 15 miliardi di euro, oltre 14 per pagare le retribuzioni di chi lavora nelle società e poco più di uno per le buste paga degli addetti ai consorzi. Ma la cifra è sicuramente sottostimata, perché in questo caso le pubbliche amministrazioni non hanno un obbligo di comunicare i dati all’archivio ministeriale. Quelle che lo hanno fatto è perché hanno raccolto l’invito di Palazzo Vidoni, che dall’anno scorso ha aggiunto la voce “costi del personale” nel modulo online che le amministrazioni devono compilare e rispedire al ministero.
Non è solo il numero complessivo a lasciare di stucco. Scorrendo i dati sulle spese per il personale ci si imbatte in situazioni che più di una perplessità la destano. Per esempio, l’azienda forestale della Regione Calabria dà lavoro a oltre 5.600 persone, per pagare le quali occorrono oltre 162 milioni di euro l’anno. Nella classifica dei consorzi, i forestali calabresi sono saldamente al primo posto, visto che il Csi (Consorzio per i sistemi informativi) del Piemonte ha a libro paga 1.171 persone, per le quali spende poco più di 66 milioni l’anno. Poco sotto c’è il consorzio milanese di servizi alla persona ex Pio Albergo Trivulzio, con 1.405 addetti e un esborso di quasi 600 milioni.
Le cifre diventano certamente più consistenti se si guarda al versante delle società. E non solo perché tra queste ci sono le grandi partecipate statali – come Eni, Rai, Enav e Anas – dove i numeri del personale sono a quattro o cinque zeri e i relativi costi sfiorano (quando non oltrepassano) il miliardo di euro. Nelle prime cinque società, però, si trova anche l’Atac, l’azienda per la mobilità di Roma, che impiega oltre 11mila persone e che deve iscrivere in bilancio 550 milioni di costo del lavoro. E sempre nella capitale c’è l’Ama, l’azienda per la raccolta dei rifiuti – anch’essa nei primi posti della classifica delle società – che impiega circa 8mila addetti, per una spesa di quasi 328 milioni di euro. Forse anche da quelle parti si può trovare una spiegazione alla voragine dei conti capitolini.
Sul taglio degli enti vince il rinvio. Già la Finanziaria per il 2010 aveva previsto l’abolizione dei consorzi, ma nulla è stato fatto
Tra il dire e il fare. La riorganizzazione delle controllate si basa su norme rigide sulla carta ma che alla prova dei fatti si rivelano troppo ambiziose
Sono da anni al centro di “riforme” che ne chiedono la privatizzazione, la chiusura o almeno – quando va bene – un consistente dimagrimento. Eppure, come mostrano i nuovi numeri della Funzione pubblica descritti nella pagina a fianco, le società partecipate continuano a crescere, insieme ai loro amministratori: e lo stesso accade ai consorzi, che la Finanziaria per il 2010 (legge 191/2009) chiedeva di abolire. Come mai?
La ragione sta nella continua altalena fra regole durissime sulla carta ed evanescenti nell’applicazione che ha caratterizzato questo settore negli ultimi anni. Anzi, spesso gli obiettivi troppo ambiziosi scritti nella «Gazzetta Ufficiale» hanno causato risultati inesistenti quando si è passati alla pratica.
Razionalizzazione addio
Un esempio lampante di questo pendolo fra petizioni di principio e mancate applicazioni è nella scadenza appena passata, quella del 30 settembre scorso, data entro la quale tutti i Comuni fino a 30mila abitanti (sono 7.787, il 96% del totale) avrebbero dovuto dire addio alle proprie partecipazioni. La regola è stata approvata per decreto (era urgente, quindi) nell’estate del 2010, e in questi tre anni ha vissuto la solita trafila delle proroghe e delle deroghe. Nella sua versione finale, salva dagli obblighi di dismissione le società con i conti in ordine, ma innesca un cortocircuito: i privati non hanno fatto certo a gara per accaparrarsi le almeno 1.500 aziende con bilanci zoppicanti, i Comuni non sono stati travolti dalla voglia di privatizzare, e il 30 settembre è passato senza che nulla si muovesse. I tecnici del Governo si sono mossi nelle settimane scorse per scrivere un decreto di riordino, ma la recente crisi politica ha travolto tutto e ora si tratta di rimettere le mani in un obbligo già scaduto.
Strumentali in bilico
L’esperienza rischia di ripetersi con l’obbligo di privatizzare o sciogliere le società strumentali, imposto lo scorso anno dalla spending review. Le pubbliche amministrazioni, in pratica, dovrebbero entro fine anno disfarsi delle aziende che raccolgono dall’ente controllante almeno il 90% del fatturato, e comprare sul mercato (risparmiando, almeno nelle intenzioni della legge) i servizi oggi svolti dalle loro aziende. Non esistono censimenti ufficiali e le stime prudenziali parlano di almeno 500 aziende con circa 20mila dipendenti: la loro privatizzazione, in realtà, avrebbe dovuto raggiungere il traguardo entro il 30 giugno scorso, lasciando a fine anno solo il termine per sciogliere le aziende non acquisite dal mercato. Finora, però, la regola ha prodotto solo richieste di deroga puntualmente respinte dall’Antitrust, e la consueta proroga ha spostato a fine anno anche la scadenza di giugno. Un bis, però, sembra probabile, perché anche per queste aziende non c’è una folla di aspiranti acquirenti privati e l’alternativa dello scioglimento non offre alcuna prospettiva ai dipendenti.
Affidamenti «senza regole»
In un flop analogo si sono risolti i tentativi italiani di tagliare la trama degli affidamenti diretti, con cui i servizi pubblici locali vengono assegnati senza gara alle aziende dei Comuni. Prima il referendum sull’«acqua pubblica» poi la Corte costituzionale hanno cancellato i tentativi di riforma, con il risultato che le uniche regole in vigore oggi in Italia sono quelle europee.
Queste consentono l’affidamento in house solo a società interamente pubbliche e controllate dall’ente affidante, ma le verifiche sulle situazioni fuori regola sono lasciate alla sola giurisprudenza, e qua e là nei Comuni si trovano ancora affidamenti diretti a società miste pubblico-private, illegittimi da anni.
Conti oscuri
La nebbia avvolge poi i rapporti finanziari tra i Comuni e le loro aziende. Spesso tra i problemi che colorano di rosso i bilanci di molte partecipate ci sono anche i mancati versamenti dei corrispettivi previsti dai contratti di servizio, i ncagliati nel più generale blocco dei pagamenti pubblici.
Nel consuntivo 2012 degli enti locali ha debuttato il nuovo prospetto di conciliazione dei rapporti finanziari tra enti locali e partecipate, ma la prima esperienza mostra che i numeri spesso non collimano ed è un problema per revisori e Corte dei conti far dialogare tra loro bilanci con lingue diverse.
Lo stesso problema che ha finora ha ostacolato la creazione di bilanci consolidati fra Comuni e aziende: il decreto sui «costi della politica» approvato lo scorso autunno dal Governo Monti lo impone da quest’anno ai Comuni sopra i 100mila abitanti.
Il Sole 24 Ore – 14 ottobre 2013