Il presidente del Senato Pietro Grasso affossa il «Salva Venezia». È la seconda fumata nera in nemmeno due mesi e in città si inizia a temere il peggio. Senza l’emendamento saltano 40 milioni di finanziamenti statali e i dipendenti comunali perdono dai 200 ai 500 euro di stipendio mensile. «La mia prima tentazione sarebbe quella di dimettermi – è la reazione del sindaco della città, Giorgio Orsoni – non tanto perché penso succeda qualcosa, ma per marcare la distinzione da questo modo di fare delle istituzioni che non mi piace».
«Qui si parla di mele e ci vogliono aggiungere le pere», ha detto ieri mattina il presidente Grasso, mandando su tutte le furie i senatori. Tra le «pere» dichiarate impresentabili rispetto al decreto legge 151, riguardante gli enti locali in generale e nello specifico i provvedimenti contro il default del Comune di Roma, non c’era solo l’emendamento per attenuare le sanzioni per lo sforamento del patto di stabilità a Venezia. I senatori avevano approvato altri 25 documenti, con sgravi fiscali, ad esempio, alle zone colpite dall’alluvione. Ma nessuno è stato ammesso al voto sulla base di quel principio di rigidità sollevato dal presidente Giorgio Napolitano il 31 dicembre contro il Milleproroghe, in cui c’era anche il primo «Salva Venezia».
«Così si delegittima il nostro lavoro, il presidente torni sui suoi passi», hanno tuonato tutti dagli scranni, parlamentari veneti del Pd in rivolta. Solo in serata Grasso ha ripreso parola, criticando duramente il governo che non si è assunto la responsabilità di inserire nel decreto legge i provvedimenti cassati. «Sono stati proposti 10 articoli e 90 commi nuovi, tra gli emendamenti, 7 riproducono testi già precedentemente approvati – ha detto -, 3 erano nel decreto decaduto a dicembre, tutte norme che il governo non ha ritenuto così urgenti da inserirle lui stesso, la mia azione ha un significato procedurale non di merito». Grasso ha ricordato la lettera del Presidente della Repubblica in cui si indica di assumere un atteggiamento severo nell’approvare le leggi. «Quanto avvenuto oggi (ieri, ndr) sia da monito al nuovo governo», ha continuato.
Le parole di Grasso non hanno però rasserenato gli animi e solo quando il presidente ha garantito che non si opporrà alla presentazione di un decreto legge di iniziativa parlamentare, il «Salva Roma» è stato approvato. L’idea di raccogliere gli emendamenti cassati in un provvedimento omnibus è di Antonio Azzollini, presidente della commissione Bilancio. «Il nostro regolamento prevede di riunire gli emendamenti sotto la dicitura “materie varie” e approvarli con urgenza», ha detto. Oggi il decreto sarà depositato e, sostiene il senatore Mario Dalla Tor (Ncd), in due settimane sarà legge. I mal di pancia fuori e dentro Palazzo Madama tuttavia rimangono. «Non mi convince l’inammissibilità di alcuni provvedimenti urgenti – ha commentato Pier Paolo Baretta, sottosegretario allo Sviluppo economico -, l’emendamento sul patto di stabilità di Venezia e quello sulle pulizie nelle scuole riguardano proprio la materia degli enti locali». Felice Casson (Pd) ieri si è astenuto dal voto nonostante il suo capogruppo Luigi Zanda abbia tentato di congelare la rivolta dei veneziani promettendo di ripresentare il «Salva Venezia». «È stato commesso un errore di fatto e di diritto – ha detto Casson -, gli emendamenti rientravano infatti nelle “indifferibili esigenze alla funzionalità degli enti locali” del decreto». Casson non è il solo a nutrire dubbi su quanto accaduto ieri. Il deputato Michele Mognato (Pd) annuncia che non sarà più un soldato fedele: «Senza garanzie sul decreto legge di prossima presentazione, comincerò a disubbidire alle indicazioni di voto». Dalle fila della Lega invece si torna a parlare di secessionismo. «È l’ennesima ingiustizia per Venezia e il Veneto – ha detto il deputato Emanuele Prataviera -, l’unica soluzione è l’indipendenza». Che poco si distanzia dal pensiero di Luca Zaia. Alla notizia dello stop al «Salva Venezia», il presidente del Veneto ha tuonato: «A questa provocazione risponderemo con un’altra provocazione», ossia il referendum per l’indipendenza della Regione. Il segretario del Pd del Veneto, Roger De Menech, abbassa i toni, ma si dichiata «amareggiato»: «Non voglio che si parli di scontro tra nord e sud anche se Venezia non ha colpe, è penalizzata dai fondi della legge speciale mentre Roma ha una storica malagestione», ha detto. Il M5S infine chiede le dimissioni della giunta veneziana dopo la figuraccia di ieri: «Un governo amico ha infatti deciso di non ascoltare le richieste dei suoi sostenitori». Il segretario provinciale del Pd, Marco Stradiotto, si appella direttamente al premier incaricato: «Invito Matteo Renzi a modificare subito le storture del patto di stabilità».
Gloria Bertasi – Corriere del Veneto – 21 febbraio 2014