Presto gli italiani potranno sapere da dove viene il grano con cui sono fatti maccheroni e spaghetti. A rivelarlo sarà la nuova etichetta sulle confezioni. Sul tavolo della Commissione Ue, infatti, è appena arrivato lo schema di decreto sull’etichettatura di origine della pasta prodotta in Italia, concordato fra i ministeri dell’Agricoltura e dello Sviluppo Economico. Ma all’orizzonte si prevede una guerra fra grandi produttori — Barilla in testa — dubbiosi rispetto alle nuove norme e i coltivatori, che puntano invece alla valorizzazione della materia prima locale.
Secondo Coldiretti quasi un pacco di pasta su tre contiene grano estero e il consumatore non lo sa. Persino un prodotto Igp (a indicazione geografica protetta) come la pasta di Gragnano, può essere fatto con frumento ucraino o messicano. Nel 2015 sono state importate 2,3 milioni di tonnellate di grano duro, circa il 40% del fabbisogno italiano. Ma è proprio vero che la pasta 100% italiana sia più buona di quella prodotta con il grano canadese o statunitense? È questo il grande interrogativo al quale ha provato a rispondere anche Oscar Farinetti, patron di Eataly, giungendo alla conclusione che il made in Italy di per sé non garantisce sempre l’eccellenza. «Per fare pasta di alta qualità serve grano duro che in Italia è difficile trovare», aveva detto ad inizio agosto, ragion per cui Eataly compra materia prima anche all’estero, in Canada e Usa, dove «non c’è paragone (in meglio, ndr) a livello qualitativo ». Una frase che gli costò l’accusa di tradimento dell’italianità mentre nel Paese infuriava la battaglia del grano.
Sebbene noi italiani ne mangiamo ancora più di tutti al mondo (23,5 kg all’anno pro capite secondo dati Aidepi), il consumo è in calo costante da oltre 15 anni, mentre le esportazioni continuano a salire, specialmente verso l’Asia dove fra il 1997 e il 2015 sono cresciute dell’80% (contro un aumento medio dell’export tricolore del 50%). Nonostante siamo il secondo produttore al mondo dopo il Canada, con 300mila aziende su un totale di 2 milioni di ettari, le quantità prodotte non sono sufficienti per soddisfare la domanda, interna ed estera. Per questo Barilla, che ha appena investito nella filiera del grano duro italiano 240 milioni di euro rinnovando i contratti di coltivazione per tre anni, nutre perplessità sul decreto per l’origine delle materie prime in etichetta: «L’origine da sola non è infatti sinonimo di qualità. Inoltre non incentiva gli agricoltori italiani a investire per produrre grano con gli standard richiesti dai pastai», afferma Luca Virginio, responsabile comunicazione e relazioni esterne del gruppo. «Gli investimenti si possono fare», gli risponde Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti, «a patto che gli agricoltori si vedano riconosciuto il giusto prezzo del loro lavoro». E ricorda che le speculazioni sui prezzi dei mesi scorsi «sono costate ai coltivatori 700 milioni di euro di danni». Per l’associazione dei coltivatori l’etichetta d’origine premia tutti: «Fa giustizia al settore e lascia i consumatori liberi di scegliere», conclude Moncalvo. «È giusto che gli agricoltori vadano remunerati, ma qui si stanno decidendo le sorti della pasta senza interpellare i pastai», ribatte Riccardo Felicetti, presidente dei Pastai di Aidepi. «La qualità del grano non conosce frontiere, questa etichetta è nata male proprio perché introduce regole diffamatorie della materia prima. La conseguenza sarà un calo delle vendite», aggiunge. E la politica cosa risponde? Il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina ne fa soprattutto una questione di trasparenza: «Il decreto presentato all’Ue è un passo storico. Puntiamo a dare informazioni sempre più chiare ai cittadini ».
“Quella sul latte ha aiutato gli allevatori”
L’etichetta d’origine della pasta arriva undici anni dopo quella sul latte. Era il 2005, il ministro dell’Agricoltura all’epoca era Gianni Alemanno, e il 7 giugno entrò in vigore la norma che prevedeva l’indicazione della zona di mungitura o la stalla di provenienza per il latte fresco. Cinque anni prima era scattato l’obbligo di indicare l’origine della carne bovina dopo lo scandalo mucca pazza, che diede inizio al percorso ormai più che ventennale dell’Unione europea sul fronte della tracciabilità degli alimenti.
Di recente, il 9 dicembre, è stata introdotta solo in Italia anche l’indicazione obbligatoria dell’origine per il latte a lunga conservazione e i formaggi confezionati (non però per quelli Dop e Igp), ritardata finora perché ritenuta di maggiore impatto sul mercato comunitario.
Ma quali conseguenze ha avuto l’etichettatura del latte sui prezzi allo scaffale dei prodotti lattiero caseari? «L’aumento dei prezzi è risibile, dell’ordine di pochi centesimi», spiega Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti. «Ma sul lungo periodo l’effetto è stato migliorativo sul fronte allevatori. A distanza di più di dieci anni, infatti, la quotazione del latte è finalmente salita al di sopra dei costi di produzione».
Lo dimostra anche l’accordo appena siglato da Coldiretti con Lactalis, che ha fissato il prezzo alla stalla a 39 centesimi al litro entro aprile. «L’indicazione dell’origine ha ridotto le speculazioni — conclude Moncalvo — i consumatori hanno premiato le aziende italiane trasparenti e hanno accettato di buon grado un minimo rialzo dei prezzi in cambio di una migliore qualità».
Repubbica – 21 dicembre 2016 –