Niente dubbi dalla Cassazione (sezione Lavoro, sentenza 20880/2018) che ha confermato il licenziamento di un dirigente medico della Croce Rossa che nel 2011 e 2012 aveva svolto l’incarico di medici penitenziario con compensi annui superiori ai 100mila euro. LA SENTENZA.
Licenziamento per giusta causa legittimo se il medico non è stato preventivamente autorizzato a svolgere incarichi esterni che invece ha eseguito.
Niente dubbi dalla Cassazione (sezione Lavoro, sentenza 20880/2018) che ha confermato il licenziamento di un dirigente medico della Croce Rossa che nel 2011 e 2012 aveva svolto l’incarico di medici penitenziario con compensi annui superiori ai 100mila euro.
Sia il Tribunale sia la Corte d’appello avevano già confermato il licenziamento, basandosi sulla non applicabilità dell’articolo 2 della legge 740/1970 (Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell’amministrazione penitenziaria), in quanto il rapporto non era quello con l’amministrazione penitenziaria ma quello con la Croce rossa italiana, caratterizzato dal principio di esclusività.
Il dirigente medico avrebbe dovuto domandare al datore di lavoro pubblico l’autorizzazione allo svolgimento o alla conservazione dell’altro incarico.
“Questa Corte – afferma la Cassazione nella sentenza – ha da tempo affermato che le prestazioni rese dai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena, non integrano un rapporto di pubblico impiego, bensì una prestazione d’opera professionale caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione, che trova la propria fonte normativa nel complesso delle disposizioni contenute nella legge n. 740/1970, le quali si pongono come norme speciali. Il comma 2 dell’art. 2, quindi, trova la sua ratio nella peculiare natura del rapporto al quale la disposizione si riferisce, perché è volto a rimarcare la non assimilabilità dello stesso all’impiego pubblico, e, quindi, ad escludere l’applicazione, non delle sole norme inerenti il regime delle incompatibilità, ma in genere dell’intera disciplina dettata per gli impiegati civili dello Stato”.
La disposizione, quindi, disciplina il rapporto tra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria ed esclude l’obbligo di esclusività, anche per estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, in considerazione della sua peculiare natura.
Ma in questo caso secondo la Cassazione “la norma non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a cumulare l’incarico con qualsiasi altra attività, prescindendo dai requisiti che per quest’ultima il legislatore richiede. Il distinto rapporto che viene in rilievo resta soggetto alle regole sue proprie, sicché, ove lo stesso sia caratterizzato dall’esclusività, l’obbligo resta immutato, e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della legge n. 740/1970”.
Quindi, il medico legato a una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, è tenuto al rispetto dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità e il divieto di cumulo di cui al D.P.R. n. 3/1957, “sicchè non può sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata, ad altri fini, dal menzionato art. 2 della legge n. 740/1970, che la Corte territoriale, correttamente, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie”.
La Cassazione sottolinea anche che “i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al ‘servizio della Nazione» e, quindi, lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi efficacemente riassunti nell’ultima versione dell’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001 con il richiamo ai ‘doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico’. La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta”.
La Cassazione conclude affermando che “la Corte territoriale, dopo avere correttamente affermato che la violazione dell’obbligo di esclusiva può giustificare il recesso per giusta causa, ferma restando la necessaria proporzionalità di cui all’art. 2106 cod. civ. fra addebito e sanzione, ha espresso il giudizio sulla gravità dell’inadempimento, sia pure con motivazione sintetica, valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta, ed a fronte di detta valutazione il ricorrente si è limitato a contestare il risultato dell’attività valutativa, che si pone sul piano del giudizio di fatto, nella specie non sindacabile neppure nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per la preclusione posta dall’art. 348 ter cod. proc. civ.. 6”.
“In via conclusiva – secondo la Cassazione – il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo. Il rigetto del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente principale”.
11 settembre 2018 – Quotidiano sanita