Se l’obiettivo della gestione dell’acqua «privata» in Italia era quella di ridurre gli sprechi, si può ben dire che l’obiettivo sia stato mancato di gran lunga. In Italia, secondo il Blue Book di Utilitalia, su cento litri di acqua distribuiti ben 39 si perdono per strada. Va meglio al Nord (il 29%), va malissimo al Centro e al Sud (46 e 45%). E anche un’azienda pubblica ma gestita per produrre utili come Acea disperde circa il 40% dell’acqua. Del resto, le reti sono stravecchie: il 60% dei tubi è stato posato più di 30 anni fa, il 25% da più di 50 anni. Anche gli investimenti per migliorare il servizio sono scarsi: servirebbero 5 miliardi l’anno, e se ne spendono meno della metà, e di questo passo per rinnovare completamente la rete ci vorranno 250 anni. Infine, l’Europa ci massacra di sanzioni per la violazione delle regole.
L’acqua, diceva Stefano Rodotà, è un «bene comune»: non coincide né con la proprietà privata né con la proprietà dello Stato, ma è un diritto inalienabile dei cittadini. Il giurista da poco scomparso fu protagonista del referendum del 2011 in cui prevalse il sì alla cosiddetta «acqua pubblica», un voto che impedendo la remunerazione degli investimenti di soggetti privati avrebbe bloccato l’ingresso dei capitali privati nella gestione dei servizi idrici. Ma l’intervento del governo – con uno dei decreti Madia, poi parzialmente bloccato dalla Consulta – del Parlamento e infine del Consiglio di Stato ha di fatto azzerato il pronunciamento referendario. E ha creato un paesaggio dell’Italia dell’acqua in cui la presenza di aziende private è sempre più importante, sempre più predominante.
Esistono ancora grandi aziende interamente pubbliche, come ad esempio l’Acquedotto Pugliese, che serve il 7% circa della popolazione italiana, o l’Abc di Napoli. Ma per circa 15 milioni di italiani i «padroni dell’acqua» sono aziende multiutilities su scala interregionale e internazionale, in alcuni case quotate in Borsa, che quasi sempre sono teoricamente controllate dagli enti locali che ne posseggono la maggioranza, ma in cui sono i partners privati a ispirarne le strategie e le politiche. Strategie «moderne», anche sul piano delle tariffe, che evidentemente puntano a generare utili oltre all’erogazione del servizio. Aziende che integrano, oltre al servizio idrico (che continua ad essere relativamente poco remunerativo) attività nel campo dell’energia e della gestione dei rifiuti.
Tra le protagoniste di questo processo di «industrializzazione», o di «finanziarizzazione» dell’acqua ci sono certamente le cosiddette «quattro sorelle»: Acea, Hera, Iren e A2a. Quattro colossi, quotati in Borsa, che già oggi forniscono acqua a circa 15 milioni di italiani attraverso gli «Ato» che controllano (le 64 aree territoriali omogenee in cui è diviso il territorio nazionale). In Acea il socio di maggioranza è il Comune di Roma con il 51% delle azioni, seguito dalla multinazionale francese Suez con il 23,3% e dall’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 5,006%). Acea è il più grande operatore italiano nel settore, con 8,5 milioni di abitanti serviti a Roma, Frosinone e altre aree di Lazio, Toscana, Umbria e Campania. Hera (dopo Acquedotto Pugliese) è il terzo «padrone dell’acqua», con il 6,1% della popolazione servita in Emilia-Romagna, Marche, Veneto e Friuli-Venezia Giulia: i principali azionisti pubblici sono i Comuni di Bologna, Imola, Modena, Ravenna, Trieste e Padova. Iren è il quarto, con il 3,8%: per il 49% è di proprietà dei Comuni di Torino, Genova, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. A2a, infine, è per la maggioranza dei Comuni di Brescia e Milano: per ora ha numeri relativamente più piccoli, ma come le altre «sorelle» è impegnata in una massiccia campagna di acquisizioni di altre aziende del settore (come la Lrh di Como e Lecco). Di recente Acea ha acquisito Idrolatina e gli Acquedotti Lucchesi, mentre Iren ha rilevato l’Atena di Vercelli. Un processo di concentrazione del mercato che pare destinato a continuare.
Analisi Perché l’acqua scatenerà conflitti
Fortunatamente non si consuma, è costantemente rinnovata dal ciclo dell’evaporazione e delle precipitazioni, ma è la sua qualità che si sta sempre più degradando: usiamo acqua pura e la restituiamo sporca. Una parte dell’inquinamento è biodegradabile ma vi sono migliaia di composti chimici di sintesi, tossici e persistenti, che da meno di cent’anni hanno iniziato a impestare tanto i ghiacciai polari quanto le falde profonde. Le “chiare fresche et dolci acque” che Petrarca cantava nel 1340 sono ormai rare, e tocca spendere sempre maggior impegno, tecnologia ed energia per potabilizzare e depurare l’acqua che fluisce nelle nostre case. Tutto questo porrebbe già una sfida di mantenimento, se non ci fosse pure il cambiamento climatico a sparigliare le carte: con l’aumento di temperatura atteso nei prossimi decenni, anche a parità di precipitazioni, l’evaporazione cresce e così pure i consumi d’acqua.
Ma se cambierà anche il percorso delle perturbazioni atmosferiche, allora pure la distribuzione mensile e la quantità di pioggia e neve potranno cambiare. Il Mediterraneo è molto sensibile a queste variazioni, un “hot-spot” climatico: se l’Accordo di Parigi non venisse rispettato, le temperature estive della pianura padana potrebbero aumentare anche di 6-8 gradi a fine secolo, e le piogge ridursi del 30-50 percento, uno scenario che porterebbe i campi di mais lungo il Po a trasformarsi in un’arida piana pakistana. I sempre più accurati modelli di simulazione del clima lo ripetono invano da anni, come lo studio “Hydrological simulation of Po River discharge under climate change scenarios” apparso su “Science of The Total Environment” a firma dei ricercatori del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, con buona pace delle sparate negazioniste dell’ultraottuagenario Zichichi. I primi sintomi del cambiamento climatico li stiamo osservando già ora: in Italia nell’ultimo secolo la temperatura è salita di 1,5 °C, i ghiacciai alpini si sono dimezzati e ogni anno perdono oltre un metro di spessore, la neve – vera riserva idrica di Alpi e Appennini – fonde con oltre due settimane di anticipo rispetto a trent’anni fa, privando i fiumi di acqua proprio d’estate, quando ne avrebbero più bisogno. A partire dal 2003 le estati italiane si sono arroventate e mettono sotto stress idrico vaste aree del paese, come sta accadendo ora nel piacentino dove negli ultimi 12 mesi sono caduti appena 420 mm di pioggia, metà del normale, e praticamente pari merito con il minimo assoluto di 413 mm del luglio 1883–giugno 1884, ma allora faceva più fresco e si usava meno acqua! Le strategie di mitigazione e adattamento al riscaldamento globale devono dunque essere messe in atto prima possibile, soprattutto nel settore idrico dove gli investimenti infrastrutturali sono consistenti e necessitano di tempi lunghi per essere realizzati.
Dovremo programmare un più efficace accumulo dell’acqua per uso agricolo e potabile nelle stagioni invernale e primaverile, quando piove e nevica in montagna, attraverso invasi piccoli e grandi, accoppiati alla produzione di energia idroelettrica con pompaggio, così da immagazzinare acqua nei momenti di esubero di produzione fotovoltaica e turbinarla quando ve ne è richiesta. Dovremo mantenere zone di salvaguardia assoluta delle falde di buona qualità per evitare inquinamenti da fitofarmaci, solventi industriali, percolati di discarica. Dovremo contenere le perdite delle reti idrauliche e introdurre sistemi di efficienza nella distribuzione dell’acqua, nonché cisterne per la raccolta di acqua piovana destinata a usi meno nobili del potabile, come l’irrigazione degli orti e gli sciacquoni dei wc (lasciando perdere il prato all’inglese e il lavaggio dell’auto, che quando di acqua ce n’è poca possono aspettare). E poi un grande investimento culturale e politico per prevenire i conflitti, che inevitabilmente sorgeranno quando l’acqua sarà meno abbondante e tutti la pretenderanno. Si chiama resilienza e bisogna costruirla prima dell’emergenza, dopo sarà tardi
La Stampa – 7 luglio 2017