Li chiamano cervelli in fuga, talenti, ma spesso sono soltanto dei giovani laureati o studenti che preferiscono tentare la loro fortuna e la loro carriera nel mercato globale, fuori dai confini italiani. Nel solo 2015, ultimo dato disponibile certificato dall’Istat, sono stati 23 mila su un’emigrazione di oltre 100 mila persone, con un aumento del 15 per cento rispetto all’anno prima e raddoppiato rispetto al 2010. E sono dati per difetto. Con una sola certezza: rispetto a tutte le emigrazioni precedenti dalla fine dell’Ottocento in poi, questa è la prima di giovani che partono con il diploma in tasca. E lasciano qui un’Italia con i figli lontani.
Se si considerano i cittadini italiani emigrati con più di 25 anni, il 31 per cento ha la laurea: tantissimi, la media di laureati in Italia è del 14,8 per cento. E questa diaspora è un fenomeno che aumenta proprio mentre gli spostamenti all’interno del nostro Paese sono in diminuzione costante. «Nelle precedenti emigrazioni chi partiva erano gli scarsamente acculturati e preparati che non trovavano più lavoro in Italia, ora parte la meglio gioventù, un capitale umano molto elevato — spiega Antonio Schizzerotto, professore di sociologia a Trento, coautore per il Mulino del saggio Generazioni disuguali —. Si tratta di un impoverimento del nostro Paese che esporta medici e ingegneri e importa badanti. Purtroppo il motivo principale è che non esiste una domanda di capitale umano perché si è storicamente puntato sulle politiche del lavoro invece che su quelle della produzione».
Partono i giovani, la metà ha tra i 15 e i 39 anni. Ma vanno soprattutto in Europa, Regno Unito e Germania, almeno fino alla Brexit sono state le due mete preferite degli emigrati, seguite da Svizzera e Francia. Partono in tanti dalla Sicilia ma tantissimi anche da Lombardia, Veneto e Trentino. «Intanto dobbiamo dire che i movimenti all’interno dell’Europa non possono considerarsi come delle vere e proprie emigrazioni, ma sono ormai spostamenti anche fisiologici: dovremmo invece chiederci perché i tedeschi o i francesi non vengono da noi», spiega Francesco Billari, professore di demografia alla Bocconi. Ma è vero che visto dalla parte di chi resta, «è la prima volta che partono i figli unici. In passato le famiglie non si disgregavano o perché partivano tutti o perché c’erano sempre uno o due figli o figlie che restavano. Questo nuovo fenomeno porrà delle sfide al welfare: la popolazione sarà più vecchia di quel che ci si aspettava e sarà più sola per quel fenomeno che si definisce già il “care drain”». Tecnologie e trasporti rendono più semplice la lontananza ma ci sono momenti in cui la vicinanza anche fisica è insostituibile: «Non solo, oggi 100 mila italiani che se ne vanno possono sembrare pochi, ma proiettiamo la cifra in dieci anni: fa un milione».
Nel 2015 sono partiti in 102 mila italiani e ne sono tornati 30 mila, stando ai dati dell’Istat che misura le iscrizioni all’anagrafe degli italiani all’estero, l’Aire. Cinque anni prima, nel 2011, se ne erano andate 82 mila persone, poco più della metà. Una stima del centro studi Idos fa salire il numero degli espatriati a 285 mila nel 2016. Se si dovesse confermare significa che l’emigrazione è simile a quella del Dopoguerra. Ma se anche si confermassero le tendenze rilevate dall’Istat è come se ogni anno l’Italia cancellasse dalla sua cartina Rimini, come se tutti gi abitanti della città romagnola partissero.
Ammaniti: il senso di colpa dei genitori
Che cosa succede ai genitori con i figli lontani, a parte la malinconia del distacco? Che cosa succede dopo una giornata passata ad aspettare una chiamata via Skype o un messaggio WhatsApp? Secondo lo psicanalista Massimo Ammaniti, autore del best seller Il mestiere più difficile del mondo (genitori) , non è solo questione di gestire la lontananza, il vuoto. Chi ha i figli lontani è diviso tra senso di colpa e compiacimento: «C’è certamente un problema di separazione e di distanza dei figli, che non solo si fanno un’altra vita ma si inseriscono — specie se vanno lontano — in un mondo e in una cultura a volte completamente diversi dal nostro, da quello in cui sono cresciuti con noi».
Ma oggi con Skype, i cellulari e le low cost le distanze si accorciano. Una volta c’erano le lettere, la posta e qualche telefonata dal «fisso»…
«È vero che Skype e WhatsApp aiutano molto oggi a mantenere i rapporti, ma non è solo una questione di parlarsi tutte le sere. Per i genitori l’idea di un figlio o figlia lontano crea un senso di fallimento, che diventa uno stato d’animo diffuso nel nostro Paese visti i dati sui giovani che vanno all’estero. Uno sente di non aver creato le condizioni perché il figlio restasse vicino, in Italia. Un genitore sa che deve provvedere al figlio, dargli tutte le risorse per crescere e entrare nel mondo adulto. In questo caso è un Paese straniero che diventa genitore e sostituisce loro che non sono stati in grado di prendersi cura».
Come si cura questo senso di fallimento?
«Bisogna accettare i propri limiti, riconoscere che come singoli e come Paese non abbiamo forse fatto abbastanza, magari è uno stimolo a pensare di impegnarsi per modificare le condizioni. Ma va detto che c’è un sentimento opposto che si può sviluppare nei genitori dopo un po’ ed è il compiacimento di aver dato ai figli comunque un’alternativa al vivacchiare, al rischio di depressione di chi non trova lavoro e non riesce a realizzarsi».
A costo di perderli, di non vederli a Natale.
«È vero, ma la disgregazione delle tradizioni familiari dovuta alla distanza è un fenomeno che altre culture e altri Paesi vivono da tempo. Penso soprattutto a Stati Uniti e Gran Bretagna, dove i ragazzi se ne vanno già per l’Università. Certo noi ne risentiamo di più perché è meno abituale, ma vedremo sempre più genitori costretti a rinunciare ai propri sogni per assecondare il futuro dei figli».
Corriere.it – 26 settembre 2017