Andrea Rossi. Il medico di base – o della mutua, come si chiamava fino a qualche tempo fa – non è un libero professionista. E se sbaglia, se non si prende cura dei suoi pazienti, non è l’unico responsabile. Anche il suo datore di lavoro – l’Asl con cui è convenzionato – ne deve rispondere.
La sentenza con cui la Cassazione ha costretto l’Asl To 4 a risarcire con 180 mila euro i famigliari di un uomo morto quattro anni fa, dopo averne passati quattordici in stato quasi vegetativo a causa di un’ischemia cerebrale curata in grave ritardo, crea un precedente con cui d’ora in poi il sistema sanitario dovrà confrontarsi: un medico di famiglia non va considerato diversamente da un dottore che lavora in ospedale; se provoca un danno a un assistito ne risponde anche la struttura, ovvero l’azienda sanitaria.
Una causa lunga 14 anni
Ci sono voluti quattordici anni di battaglie giudiziarie. Venerdì scorso la terza sezione civile della Cassazione ha dato ragione agli avvocati Renato Ambrosio, Marco Bona e Umberto Oliva, incaricati dalla famiglia del signor B. nel 2001, quattro anni dopo il malore. Era il primo dicembre 1997: B. aveva 58 anni, era in pensione da pochi mesi. Stava male, quel mattino, un dolore che dalla testa si irradiava alla parte sinistra del corpo. Sua moglie aveva chiamato il medico di famiglia, aveva lasciato un messaggio in segreteria e atteso la telefonata fino alle 21,30. «Mio marito ha mal di testa, fatica a muovere la mano sinistra». Il medico aveva promesso di passare il mattino dopo, ma senza particolare urgenza, tanto che si era presentato a casa B. – a Chivasso – solo nel pomeriggio dopo una nuova telefonata di sollecito. «Non è niente, signora, solo un po’ di stress»: la pressione andava bene, la visita era finita con una pastiglia di Tavor e un’impegnativa per una visita neurologica da prenotare una volta passato il malessere, senza fretta.
Danni irreversibili
La fretta, invece, è proprio quel che sarebbe stato necessario per salvare la vita al signor B. La stessa notte è crollato a terra senza conoscenza. All’ospedale di Chivasso gli è stata diagnosticata un’ischemia. Non è mai più tornato a casa: dopo quattordici anni vissuti tra centri di riabilitazione e case di cura, il 6 agosto del 2011 è morto.
È morto poco prima che la Corte d’appello di Torino ribaltasse in parte la sentenza del Tribunale, che nel 2008 aveva condannato medico e Asl (l’ex Usl 7) a risarcirlo per quel terribile errore. Una consulenza del Tribunale aveva dimostrato che se soccorso in tempo B. avrebbe potuto proseguire una vita dignitosa, per lo meno a casa sua. Il danno cerebrale – l’80% – avrebbe potuto essere più lieve, non oltre il 60%. Per di più, sarebbe bastata un’aspirina per frenare l’emorragia che aveva in testa. La condanna del medico era stata pressoché automatica: il dottore, chiamato più volte dalla moglie di B., aveva atteso quasi due giorni per visitare l’uomo; e una volta a casa sua aveva sbagliato diagnosi.
Un doppio errore dalle conseguenze drammatiche. Secondo i giudici d’appello, tuttavia, se la responsabilità del medico (senza assicurazione e nel frattempo trasferitosi in Australia) era assodata, non si poteva dire lo stesso per l’Asl: mancava un rapporto diretto tra l’azienda e il paziente e tra l’azienda e il dottore. La Cassazione ha invece accolto le tesi degli avvocati di B. Il rapporto esiste eccome: il medico di base non è un libero professionista, ma un lavoratore para-subordinato, convenzionato con l’Asl e pagato dall’Asl stessa. Ed è, in sostanza, il braccio attraverso cui l’azienda eroga il servizio di assistenza ai cittadini garantito dalla legge. Una sentenza dagli effetti dirompenti: «I cittadini, se danneggiati dal medico di base o dal pediatra potranno agire anche contro le Asl», spiegano Ambrosio, Bona e Oliva. «E le aziende dovranno assicurasi anche per l’operato di questi dottori».
La Stampa – 31 marzo 2015