Ci ha visto lungo la giunta Zaia quando, lo scorso luglio, ha impostato la distribuzione delle risorse 2014 alle Usl tenendosi su una cifra più bassa rispetto a quella ricevuta dal governo il 5 agosto scorso con il riparto del Fondo sanitario nazionale (109,9 miliardi). Parliamo di un prudenziale 8 miliardi e 390 milioni di euro assegnato da Palazzo Balbi alle 24 aziende sanitarie contro gli 8 miliardi e 696 milioni destinati da Roma al Veneto, premiato con 201 milioni in più rispetto all’importo ottenuto nel 2013. Peccato però che adesso Palazzo Chigi rivoglia indietro dalla giunta Zaia 240 milioni nel triennio 2015/2017, vista l’annunciata riduzione di 3 miliardi del Fondo sanitario nazionale.
Se si tratterà di un taglio lineare, per ogni Regione il «sacrificio» necessario a sostenere la legge di stabilità (bisogna trovare tra tutti i dicasteri un totale di 20 miliardi) verrà quantificato in base alla percentuale della quota di accesso al Fondo.
Per il Veneto è dell’8,1%, che calcolato sui 3 miliardi da «restituire» fa appunto 240 milioni. «Sono 80 all’anno e c’è pure il rischio che la prima rata venga riscossa subito e non nel 2015 — commenta l’assessore alla Sanità, Luca Coletto —. Una manovra che fa malissimo ed è pure scorretta, perchè prima ancora di formare il governo il premier Matteo Renzi aveva promesso di non toccare la sanità. Per noi, Regione virtuosa che non ha certo sprechi da eliminare, significa dover sopprimere servizi. I primi a saltare sono gli extra Lea, cioè le prestazioni che forniamo solo dietro pagamento di ticket in aggiunta a quelle erogate in tutta Italia con i Livelli essenziali di assistenza. Ma dovremmo rinunciare anche a potenziare i servizi a malati cronici, anziani e disabili, come avevamo pianificato in virtù dei 201 milioni in più ricevuti quest’anno».
Coletto, che coordina gli assessori alla Sanità, li ha convocati per il 24 settembre a Roma. «Faremo fronte comune per scongiurare un’operazione insostenibile — dice —. Rischia di saltare anche il Patto per la Salute e con esso la revisione dei Lea, ancora gravati da esami superati ma costosi risalenti al 2001, l’applicazione di costi e dotazioni ospedaliere standard e la rivisitazione del ticket, con l’esenzione per età da togliere agli anziani ricchi e spostare su famiglie numerose e disagiati. Insomma, una vera emergenza». E infatti il governatore Luca Zaia non ci sta: «Provino a tagliare un solo euro al Veneto e mi troveranno steso di traverso sulla strada che vogliono percorrere di distruzione della sanità in Italia. E in particolare nelle realtà, come la nostra, dove ogni euro risparmiabile è già stato risparmiato senza aspettare i super esperti di turno. Qui da noi ridurre ancora la spesa equivarrebbe inevitabilmente a tagliare le cure ai malati. Ci pensino bene, prima che scoppi la rivolta». A riprova dell’assenza di voci da sopprimere in Veneto, Zaia cita una serie di servizi ospedalieri che nel resto del Paese costano dal 40% al 650% in più (vedi tabella a fianco). Si va dal servizio di ristorazione (+40%, appunto) alle pulizie (+100%), passando per le bende (+650%: qui si pagano 4 centesimi a confezione, altrove 19) e gli stent coronarici (+200%). Secondo Zaia i soldi che il governo sta cercando dovrebbero saltare fuori obbligando le giunte spendaccione ad allinearsi sui prezzi più bassi già praticati dalla sua. «Il metodo per farlo è semplice — chiude il presidente — applicare i costi standard prendendo le Regioni virtuose come base del calcolo».
Sul tema l’opposizione si spacca. Da una parte il Pd, che con Laura Puppato e Claudio Sinigaglia attacca: «Il taglio di 3 miliardi non sarà lineare, il ministro Beatrice Lorenzin ha quantificato in 13 miliardi la perdita per le prescrizioni inappropriate e il Parlamento intende far rispettare da subito i costi standard. Zaia non abbia timori ma rifletta sulle storture di una sanità regionale a macchia di leopardo e di cui non si sta curando». Dall’altra l’Idv, che con Antonino Pipitone avverte: «Se passerà l’idea di investire sempre meno sulla salute, diverrà evidente l’interesse a spostare pezzi di assistenza verso il settore privato, ormai per tante prestazioni più conveniente del pubblico».
Costi standard applicati solo nelle otto Regioni con il bilancio in ordine
Ma che fine hanno fatto i costi standard, unica applicazione vera del federalismo fiscale, varati dal governo nel 2013? Prima di tutto va chiarito un concetto, come spiega la Cgia di Mestre: «Per costi standard si intende quanto le Regioni spendono per erogare servizi sanitari, cioè ospedalieri, territoriali e di prevenzione. Non significa che la stessa siringa deve avere un costo uguale in tutta Italia: quest’ultima è la spesa standard e ha a che fare con le centrali uniche di acquisto. Con l’introduzione dei costi standard il governo ha introdotto un nuovo sistema per calcolare il riparto tra le Regioni del Fondo sanitario, basato non più solo sul numero di abitanti e la loro età, ma anche sul modo in cui lavorano i sistemi sanitari». Ecco perchè i Fondi sanitari nazionali 2013 e 2014, impostati appunto sui costi standard, hanno riconosciuto più soldi al Veneto. Che, con Umbria ed Emilia è stato preso dallo Stato come regione benchmark (tutte e tre hanno ottenuto un «premio» di 18 milioni), cioè modello per elaborare i costi standard, che sono valori mediani tra i più alti e i più bassi.
Se tutte le Regioni li applicassero nell’acquisto dei servizi sanitari, ci sarebbe un risparmio nazionale che renderebbe inutili i tagli al settore e regalerebbe più soldi alla cura dei malati. Ma per ora solo otto li rispettano, quelle con i conti a posto: Veneto (è sua la minor spesa per il personale nel triennio 2010/2012), Emilia, Umbria, Toscana, Lombardia, Marche, Basilicata e Abruzzo. Le altre sono alle prese con i piani di rientro. Quasi tutte però stanno applicando la seconda parte del piano, cioè l’istituzione di un Centro unico di acquisto, reso obbligatorio dalla Conferenza Stato-Regioni.
Michela Nicolussi Moro – Il Corriere del Veneto – 12 settembre 2014