Meno preparati omeopatici a disposizione degli italiani, spese in aumento per le aziende produttrici con rischio di crisi per le più piccole. La rivoluzione nel mondo della medicina non convenzionale nata in Germania alla fine del Settecento è iniziata e nel giro di qualche mese ci sarà un crollo delle tipologie di sciroppi e granuli in vendita in farmacie ed erboristerie. Si passerà dalle circa 9mila specialità disponibili all’inizio di quest’anno a un massimo di 3mila per la fine del 2018, quando sarà concluso l’iter delle autorizzazioni, e sempre che tutti i prodotti per i quali è stato chiesto il via libera lo ottengano. Sì, perché, dal primo gennaio 2019 potranno essere venduti solo i rimedi omeopatici inseriti in un apposito prontuario stilato dall’Aifa.
Una prima conseguenza è che già adesso sono stati tolti dal commercio molti prodotti: secondo alcune stime ne sono rimasti in circolazione circa 6mila. Si vedrà più avanti se la novità ridurrà la diffusione in Italia dell’omeopatia, che negli anni più recenti ha assistito a un calo delle vendite dei suoi rimedi. Del resto accanto ai tanti che assicurano di trarre benefici da questa disciplina, ci sono molti scettici, che ricordano come non abbia basi scientifiche convincenti.
Quello che sta accadendo è la conseguenza di un riconoscimento che aveva fatto cantare vittoria ai produttori e ai sostenitori dell’omeopatia. Con una legge del 2016 si è infatti deciso che anche questi preparati, fino ad ora messi in vendita liberamente, debbano avere l’Aic, autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’Aifa, l’Agenzia del farmaco. Proprio come succede per i medicinali allopatici, ma in forma più semplificata.
La norma prevedeva che entro il 30 giugno le imprese omeopatiche presentassero i dossier per i prodotti dei quali volevano l’autorizzazione. Ebbene i fascicoli consegnati ad Aifa sono circa 3mila. Gli altri preparati sono stati esclusi, perché poco redditizi. Del resto la registrazione è costosa. In questa prima fase si è deciso di farla pagare alle imprese mille euro ma in futuro si salirà sui 10-20mila a dossier. Oltretutto bisogna rinnovare la richiesta ogni 5 anni e se ci sono dei cambiamenti nelle componenti del rimedio omeopatico, o anche delle modifiche societarie di chi lo produce, vanno pagate integrazioni da 1.500 euro alla volta. Questo ha costretto i produttori a selezionare, decidendo cosa meriti gli investimenti necessari per l’Aic ed eliminando quello che viene venduto poco.
«È stata una norma europea a imporre all’Italia di agire in questo modo — spiega il direttore dell’Aifa Mario Melazzini — Tra l’altro è andata in proroga per anni. Adesso ci siamo e noi abbiamo rinforzato l’ufficio valutazioni medicinali, che ha pianificato il lavoro in modo da dare il via libera ai dossier entro il termine previsto dalla legge, cioè il 31 dicembre 2018». Non è facile stimare a quanti preparati sarà data l’autorizzazione. Comunque, vista la natura dell’omeopatia, eventuali esclusioni non saranno legate alla pericolosità di effetti collaterali o all’inefficacia dei prodotti. «Più che altro si guarderà se i dossier sono a posto dal punto di vista formale», spiega ancora Melazzini.
Mentre l’agenzia del farmaco ha già iniziato a valutare e autorizzare i primi prodotti, le aziende italiane sono preoccupate. «Abbiamo dovuto sostenere onerosi investimenti per adeguarci alle richieste di Aifa», dice il presidente di Omeoimprese Giovanni Gorga, sottolineando come le aziende omeopatiche hanno dimensioni inferiori rispetto alle aziende farmaceutiche. «Il decreto Tariffe della ministra Lorenzin del febbraio 2016 stabilisce tariffe assolutamente improponibili. Si tratta dell’ennesima mossa che va a penalizzare l’industria nazionale, lasciando invece carta bianca alle aziende straniere che, in Europa, sottostanno a regole e condizioni economiche meno stringenti». Le tariffe per registrazioni e variazioni sono considerate troppo alte. Già ora hanno costretto molte realtà a ritirare tanti prodotti dal mercato, più avanti ci potrebbe essere «la chiusura della produzione e la perdita di posti di lavoro».
Repubblica – 27 ottobre 2017