Senza giri di parole: «Io sarei per portare l’obbligo scolastico a 18 anni, perché un’economia come la nostra, che ha come obiettivi crescita e benessere, deve puntare sulla formazione e sulla società della conoscenza». La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha strappato applausi ieri al Meeting di Rimini, intervenendo al dibattito che ha preso spunto dalla mostra «Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica» coordinata dal giornalista Giorgio Paolucci. Applausi soprattutto quando ha denunciato: «È inaccettabile che la retribuzione dei docenti sia la più bassa di tutta la Pubblica amministrazione».
Pronta a fare una battaglia sull’aumento degli stipendi? «Assolutamente sì. Se si ritiene importante, quale in effetti è, il ruolo dei docenti e dell’insegnamento si deve loro un riconoscimento culturale e sociale che deve tradursi in un riconoscimento anche dal punto di vista retributivo». La discussione vira sulla necessità di un’integrazione dei ragazzi di origine straniera e il ministro parte dai dati acquisiti: «Intanto nella scuola italiana si inseriscono i ragazzi diversamente abili, mentre in altri Paesi esistono ancora le classi differenziate».
Ma sul tema dello ius soli, anche all’indomani del monito di Papa Francesco sull’urgenza di riconoscere la nazionalità al momento della nascita, la politica è ancora divisa: «Spero — si augura la ministra — che riusciremo a varare la legge. Abbiamo 820 mila ragazzi che sono già nel nostro percorso scolastico, studiano la nostra lingua, tifano le nostre squadre, giocano e costruiscono relazioni con i nostri figli e nipoti. Se non garantiremo loro i diritti di nascita diventerà più difficile parlare di integrazione nelle classi». Infine una critica ai toni che talora assume il confronto politico: «Quando si parla della loro cittadinanza c’è una cesura. La società italiana è molto più avanti della rappresentazione della bassa qualità del dibattito che abbiamo avuto su questo tema. Un conto è discutere e anche, legittimamente, avere opinioni diverse: un altro scendere a livello dell’insulto e della provocazione».
Accanto a lei lo scrittore Eraldo Affinati, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola di italiano per immigrati Penny Wirton, ricorda l’insegnamento di don Milani: «La scuola deve puntare sulla qualità della relazione umana. Noi lo sperimentiamo ogni giorno: se si segue questa impostazione che non esclude e giudica i ragazzi ma li incoraggia e premia potremmo diventare laboratorio antropologico della nuova Europa. Esiste però uno scollamento tra scuola e famiglia: gli insegnanti oggi sono spesso più soli che ai tempi di don Milani».
Elisabetta Soglio – Il Corriere della Sera – 23 agosto 2017