La Stampa. Ore 18,20, parla Matteo Renzi. Ed è il game-over. La giornata più pazza della maggioranza giallorossa culmina con un punto fermo: Italia Viva ritira la sua delegazione dal governo. Le ministre Teresa Bellanova (Agricoltura) ed Elena Bonetti (Famiglia), e il sottosegretario Ivan Scalfarotto (Esteri), danno le dimissioni.
È la crisi, che ora può finire in mille modi. Giuseppe Conte ne prende atto nel consiglio dei ministri della sera: «Non può essere considerato un fatto estemporaneo, non si può sminuire la gravità di questa decisione».
L’annuncio di Renzi è accolto gelidamente dagli alleati. Lapidario Nicola Zingaretti, il segretario Pd: «Scelta incomprensibile. Ora è a rischio tutto, dagli investimenti nel digitale alla sanità». Pure Vito Crimi esprime lo sconcerto dei grillini: «Credo che nessuno abbia compreso le ragioni di questa scelta». Ed è sbigottito Nicola Fratoianni, LeU: «Evitiamo di aprire crisi al buio».
Eppure fino all’ultimo i pontieri avevano lavorato per evitare lo strappo finale. All’ora di pranzo Giuseppe Conte era salito al Quirinale per riferire sullo stato delle trattative. L’indicazione del Colle era di uscire dalle fibrillazioni e concentrarsi su pandemia e crisi economica. Il premier a quel punto aveva fatto filtrare che era quasi pronto un documento da discutere e far firmare ai leader della maggioranza. Diceva Conte ai giornalisti che gli chiedevano della crisi: «Spero di no. Sto lavorando ad un Patto di legislatura. Se c’è disponibilità di confrontarsi in modo leale, sono convinto si possa trovare il senso di una maggiore e nuova coesione».
Si profilava insomma un accordo che avrebbe dato soddisfazione alle critiche di Renzi e insieme blindato la maggioranza fino al 2023. Non a caso il ministro Roberto Gualtieri aveva chiamato al telefono la collega Bellanova e si era detto disposto a riscrivere il Recovery Plan per quanto riguarda il capitolo dell’agricoltura, tanto criticato da Italia Viva.
Il Pd dava voce alla speranza di ricucire in extremis. «Una crisi – diceva il vicesegretario Andrea Orlando – costituirebbe un gravissimo danno per il Paese. Conte ha ribadito la volontà di rimanere nel perimetro di questa maggioranza e di lavorare per un Patto di legislatura. Adesso Iv raccolga questo invito. Fermiamo le polemiche, mettiamoci al lavoro nell’interesse dell’Italia».
E invece, nel pomeriggio Renzi metteva la parola fine alle attese. Annunciava che le ministre si sarebbero dimesse. Ma mai dire mai. Renzi accompagnava il tutto con l’ennesimo rilancio. «Se c’è un progetto, allora si può pensare a un Patto di legislatura. Se c’è, noi ci siamo». Non proprio un addio definitivo. Tanto più che Italia Viva ha subito chiarito che avrebbe votato a favore del decreto Ristori e dello scostamento di bilancio. Renzi insomma esce dal governo, ma non per forza dalla maggioranza.
Il centrodestra, intanto, era in riunione permanente. Garantivano: da noi nessun aiuto, nessun responsabile. In un quadro politico così fluido, si aprono infatti possibilità insperate. Diceva perciò Matteo Salvini: «Ci sono un governo
confuso e dimissionario e un centrodestra compatto. Conte venga in Parlamento e spieghi. Se c’è un governo, trovino i numeri e facciano. Altrimenti si facciano da parte». —
I paletti del Quirinale non si può governare con un pugno di voti
Il telefono del Quirinale ieri sera non ha squillato, ma entro le prossime ore Giuseppe Conte dovrà comporre quel numero e chiedere udienza per comunicare ufficialmente al capo dello Stato quali sono le sue intenzioni. Già, perché la crisi non è ancora formalmente aperta e al premier spettano alcune scelte piuttosto delicate su cui Sergio Mattarella non intende esercitare la minima ingerenza. In particolare, quando salirà al Colle, Conte potrà dimettersi seduta stante, come era discutibile prassi della Prima repubblica quando un partito della coalizione ritirava il proprio sostegno; in alternativa potrà manifestare la volontà di presentarsi alle Camere per illustrare la situazione che si è creata e poi trarne le conseguenze al termine del dibattito con un voto o anche senza bisogno di votare, dipende. Potrebbero sembrare cavilli procedurali, sfumature quasi impercettibili, ma non è affatto così perché scegliere l’una o l’altra strada può determinare conseguenze molto diverse.
Per esempio, scegliendo di parlamentarizzare la crisi come insegnano i manuali di diritto costituzionale, il premier dovrebbe assumersi l’interim delle ministre dimissionarie, ma avrebbe modo di illustrare le sua linea al Paese con più forza e solennità (idem Italia Viva). E dal momento che un dibattito tra Camera e Senato verrebbe quasi certamente a cadere nella prossima settimana, nel frattempo Conte potrebbe tentare di far pace con Matteo Renzi (una parte del Pd lo reputa ancora possibile); qualora al contrario scegliesse lo scontro col suo predecessore, avrebbe forse il tempo sufficiente per mettere insieme un gruppo di «responsabili» disposti a sostenerlo, sempre che riesca a trovarne abbastanza, si capisce. Ma sono tutte valutazioni di competenza del premier, calcoli complicati che vedrà lui come risolvere parlandone con chi lo consiglia. Mattarella se ne vuol tenere il più possibile fuori, questo assicurano sul Colle, perché chi come lui fa l’arbitro non può né deve suggerire le mosse ai vari protagonisti.
Anche ieri intorno all’ora di pranzo, quando Conte è andato a anticipargli l’intenzione di tendere in extremis la mano a Renzi, il presidente è rimasto soprattutto a sentire. Questo si dice lassù. Non trova conferme la voce secondo cui si sarebbe caldamente raccomandato di evitare forzature, tipo campagne acquisti per arruolare qualche transfuga del centrodestra. Del resto Mattarella non aveva bisogno di ripeterlo: la sua avversione per governi che si reggono su un pugno di voti è nota a tutti, Conte compreso.