Se “il telefono è la tua voce”, allora “la pensione è la tua croce”. Lo dimostra l’attualità, sempre in continua evoluzione, lo confermano anche i confronti – spesso serrati – negli ambienti di lavoro. Che possono portare addirittura a rischiare il licenziamento per i toni troppo accesi.
Ma a salvare il lavoratore è proprio l’argomento, la pensione, per l’appunto: evidentemente il pomo della discordia è «estraneo agli obblighi di servizio» (Cassazione, sentenza 12697/12), quindi azzera, seppur momentaneamente, i rapporti gerarchici.
Il caso
Scenario è un’azienda pubblica – socio unico il Comune – che si occupa della gestione del trasporto cittadino. Protagonisti dello scontro verbale un dipendente e un dirigente – un ingegnere, per la precisione –: argomento il fronte pensionistico. Il confronto verbale è acceso, troppo acceso… Secondo la ricostruzione fatta dall’azienda, il dipendente ha «aggredito verbalmente il proprio superiore, tentando di rovesciare addosso a quest’ultimo la scrivania ed una sedia dell’ufficio» e poi ha chiuso il round con un avvertimento: «e non finisce qua…». Pesanti le conseguenze: sospensione e poi destituzione. A salvare il dipendente, messo seriamente a rischio, sono i giudici, prima del Tribunale e poi della Corte d’Appello, i quali affermano che non è «dimostrato» che il lavoratore si fosse reso responsabile di «atti di grave insubordinazione». Ma è proprio la valutazione dell’episodio ‘incriminato’ a costituire l’appiglio fondamentale per il ricorso per cassazione proposto dal legale che rappresenta l’azienda. Chiara la tesi proposta: a essere contestato al lavoratore è il «comportamento aggressivo» nei confronti del superiore, non l’«insubordinazione», e, comunque, i «fatti addebitati» consentono di considerare acclarato il «giustificato motivo soggettivo di licenziamento». Per i giudici della Cassazione, però, va condivisa la ricostruzione compiuta in Appello, ricostruzione che ha permesso di risalire a una «semplice discussione, ancorché animata» senza nessuna aggressione. E anche i comportamenti ritenuti più gravi erano, secondo i giudici, da rivalutare: «non rispondeva a verità» che il dipendente «stesse tentando di rovesciare la scrivania, ma solo che lo stesso diede ad essa una leggera spinta che la spostò»; «non era vero» che il dipendente «tentava di rovesciare addosso al superiore una sedia, limitandosi a sollevarla». Quadro, quindi, molto più semplice per il lavoratore. Reso ancora più leggibile da un ulteriore chiarimento da parte dei giudici: «il colloquio col superiore aveva ad oggetto un argomento totalmente estraneo agli obblighi di servizio del lavoratore (modalità di pensionamento) senza alcuna relazione con il dovere di osservanza delle direttive del superiore gerarchico». Inevitabili le conseguenze: conferma della pronuncia dell’Appello, rigetto del ricorso dell’azienda e lavoratore salvo da ogni contestazione.
La Stampa – 4 settembre 2012