Quattro righe di notizia dell’agenzia cinese Xinhua mandano un segnale importante all’Occidente: «Dall’1 dicembre saranno ridotti i dazi doganali sulle importazioni di alcuni beni di consumo, dal 17,3% al 7,7% in media». La Xinhua rinvia al sito del Ministero delle Finanze, che pubblica un elenco di 187 categorie di prodotti: si va dall’acqua minerale alla carne e agli avocado, dai tessuti di cashmere alle scarpe. Tariffe per l’importazione ridotte a zero sul latte in polvere per bambini, i pannolini e le carrozzine. C’è anche qualche curiosità, come l’abbattimento dal 65 al 14% dell’imposta sul vermouth: saranno felici gli amanti cinesi del Martini cocktail, che si dovrebbe fare con due parti di gin e una di vermouth.
Le Finanze di Pechino spiegano che lo scopo è di rendere più accessibili ai consumatori locali prodotti di qualità che il «made in China» non è in grado di offrire. Il latte per i bambini è uno degli esempi più noti: nel 2008 in Cina fu scoperta la truffa della melamina nel prodotto nazionale, che aveva avvelenato centinaia di migliaia di bimbi; da allora i genitori cinesi hanno cercato di fare incetta di latte in polvere all’estero.
Ma ci sono motivi macroeconomici e politici dietro la lista di 187 beni di consumo stranieri che dovrebbero costare meno in Cina. Il Partito-Stato sta cambiando modello di crescita, da quello di «fabbrica del mondo a basso costo» spinto da esportazioni e investimenti (che creano debito) a quello di società matura fondata sulla spesa dei consumatori interni e sui servizi. Nel Congresso del Partito comunista che a ottobre lo ha confermato segretario generale, Xi Jinping ha proclamato che la «contraddizione principale di fronte alla società marxista si è evoluta e ora riguarda l’aspirazione della gente verso una vita migliore». Servono quindi prodotti di qualità adeguata e a costi accessibili per «dare più possibilità di scelta alla gente».
E poi il taglio dei dazi doganali risponde alle richieste dell’Occidente, arriva pochi giorni dopo la visita di Donald Trump che non si dimentica mai di denunciare lo squilibrio sleale della bilancia commerciale con la Cina: 347 miliardi di deficit per gli Stati Uniti nel 2016; un surplus globale da 510 miliardi all’anno a favore dell’industria cinese. Da Washington, nonostante l’accoglienza imperiale riservata due settimane fa a Trump nella Città Proibita, arrivano voci di un imminente approccio più aggressivo verso Pechino. Spiega alla Bloomberg Neville Hill, capo della Ricerca economica globale di Credit Suisse: «Questa lista di 187 prodotti d’importazione è una mossa che vuole dare una prova di libero commercio agli Stati Uniti, ma è anche un modo per incentivare i consumi dei cinesi e sostenere la crescita interna. Può evitare una guerra commerciale con gli americani e farà bene anche alla crescita globale». Un altro segnale conciliante è stata l’apertura immediata questo mese nel settore dell’asset management: i gruppi stranieri potranno avere il 51% delle joint venture che operano in Cina.
Pechino già nel 2015 tagliò una prima volta i dazi nelle importazioni di tessuti, scarpe e prodotti di lusso. Un modo per ridurre il fenomeno dei milioni di cinesi della nuova classe media che vanno all’estero a fare shopping sfrenato a prezzi più bassi che in patria. «Incoraggiare i nostri consumatori a comprare anche i prodotti stranieri da negozianti cinesi fa crescere i posti di lavoro da noi», spiega Lu Zhengwei, analista della Industrial Bank di Shanghai.
«Ottima notizia per i prodotti made in Italy»
L’esercizio più interessante è scorrerla, la lista dei 187 prodotti che sarà più facile esportare in Cina. Numero 12: formaggi. Numero 30: acqua minerale. Dal 34 al 60: farmaci di vario tipo. Numero 63: ombretti per gli occhi. Numero 68: prodotti per la permanente (le cinesi vogliono sperimentare il look riccio, evidentemente). Numero 76: sali da bagno. Dall’81 al 117: prodotti legati a tessile, abbigliamento e accessori.
Dopo essere stati invasi dagli abiti a basso costo cinesi è l’ora della riscossa del made in Italy?
«Beh, sicuramente si tratta di un’ottima notizia per il nostro settore — risponde Claudio Marenzi, amministratore delegato di Herno, presidente di Pitti immagine e di Sistema Moda Italia —. Però guardi che i cinesi hanno cominciato da un pezzo a comprare italiano».
E dove?
«Gran parte del turismo cinese è legato allo shopping. Nei duty free coreani, poi, il 70% delle vendite è fatto grazie ai cinesi».
I dazi logorano chi li impone?
«Esatto. Anche il governo cinese deve averlo capito. Quantomeno potrà incassare il corrispondente della nostra Iva».
Nessun lato negativo in tutta l’operazione?
«Uno ci sarebbe. I cinesi potranno importare tessuti italiani pregiati con cui confezioneranno abiti a casa loro. Con costi bassi. Questo comporterà una nuova concorrenza per le nostre imprese».
di Rita Querzé – Il Corriere della Sera – 25 novembre 2017