Vittorio Sabadin, la Stampa. Co-op, la cooperativa di consumatori britannici che ha come soci quattro milioni di persone, ha deciso di realizzare nei suoi supermercati una corsia speciale in cui venderà per un mese a prezzo molto scontato i cibi che hanno superato la data consigliata per il consumo. Le associazioni che si battono contro lo spreco di prodotti alimentari esultano: nel Regno Unito si butta via ogni anno la quantità record di 110 chili di cibo per abitante, più che negli Usa, che si fermano a 109. L’Italia non va però molto meglio, con 108 chili a testa.
Da anni gli esperti indipendenti dell’industria alimentare denunciano le pessime abitudini dei produttori, che fanno scrivere su ogni confezione «Da consumarsi preferibilmente entro il…» La frase spaventa i consumatori, facendo loro pensare che ignorare il consiglio sia pericoloso. Questo avviso è una cosa ben diversa dalla data di scadenza, che va invece osservata con maggior rigore, e si ritiene che sia utilizzato con frequenza proprio per spingere la gente a buttare via cibo ancora buono per comprarne altro.
Alla Co-op britannica, le cui linee guida sono concordate con le sue migliaia di piccoli azionisti, hanno così deciso che i prodotti in scatola e i prodotti secchi, che non hanno praticamente scadenza, saranno venduti fino a un mese dopo la data indicata nella frase “… preferibilmente entro”. E’ solo l’inizio: molti altri prodotti che non scadono mai o che hanno proprietà di conservazione elevate raggiungeranno presto gli scaffali.
L’elenco dei cibi da salvare potrebbe diventare molto lungo. L’ossessione per l’igiene alla quale siamo ormai abituati ci spinge infatti a gettare via molti prodotti che non hanno più un aspetto «fresco», anche se continuano a essere perfettamente commestibili. Consideriamo nemici tutti i batteri, mentre invece solo una piccola parte dei microrganismi che ingeriamo è pericolosa. La maggior parte serve alla digestione, a controllare le calorie che assorbiamo, a produrre enzimi e vitamine. Un po’ di crosta sul formaggio stagionato o una macchia scura su una banana non dovrebbero dunque spaventarci.
Secondo i calcoli della Institution of Mechanical Engineers inglese, nel mondo vengono buttate via ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. La Fao pensa che siano un po’ meno, circa 630 milioni di tonnellate, una quantità comunque impressionante. Per produrre quel cibo si consuma l’acqua che scorre in un anno nel fiume Volga, si utilizzano 1,4 miliardi di ettari di terreno e si immettono nell’atmosfera 3,3 miliardi di tonnellate di CO2. L’Italia fa la sua parte con 20 milioni di tonnellate di cibo sprecato, per un valore di 8 miliardi di euro che potrebbero essere spesi meglio. Complessivamente, una quota fra il 30 e il 50% del cibo prodotto nel mondo occidentale viene buttata via e quella che finisce in pattumiera potrebbe da sola sfamare l’intera Africa sub-sahariana.
La colpa è anche delle date di scadenza troppo rigide e delle promozioni che nei supermercati spingono la gente a comperare cibi di cui non ha bisogno. Ci sono poi le normative di conservazione, che complicano la procedura di trasferimento del cibo alle charity che potrebbero distribuirlo ai bisognosi. In Italia, una legge all’avanguardia chiamata “del Buon Samaritano”, approvata nel 2003 grazie alle insistenze della Fondazione Banco Alimentare, rende più facile raccogliere cibo. Ma perché le cose cambino davvero, tutto deve cominciare dalle famiglie, che dovrebbero ritrovare quello spirito nato durante la II guerra mondiale e trasmesso per un po’ alle generazioni successive, secondo il quale buttare il cibo non è solo un peccato: è proprio una stupidaggine.
I più “spreconi” sono Usa ed Emirati Arabi
Sara Ricotta Voza. Ai Mondiali della sostenibilità alimentare la Francia è Campione. La inseguono Giappone, Germania, Spagna e Portogallo. L’Italia arriva settima, grazie alla performance nell’agricoltura sostenibile. Regno Unito decimo, Usa ventunesimi, Emirati Arabi Uniti ultimi. Ma chissà che classifiche come questa non facciano scattare un «Sustainability Pride» che si traduca poi in investimenti responsabili per guadagnare posizioni.
Le pagelle sono quelle del Food Sustainability Index 2017 presentato ieri a Milano all’VIII Forum della Fondazione Barilla su Alimentazione e Nutrizione. Qui, all’Hangar Bicocca e sotto le Torri di Kiefer che con le loro silhouette instabili ricordano a tutti l’equlibrio precario in cui viviamo, si sono avvicendati economisti, politici e attivisti di fama mondiale, da Jeffrey Sachs a Gunter Pauli, da Melissa Fleming dell’Onu a Vytenis Andriukaitis dell’Ue, da Bob Geldof a Carlin Petrini. Ad accoglierli, Guido Barilla, Presidente del Gruppo e della Fondazione omonimi.
L’Index, come sempre, è stilato dall’Economist Intelligence Unit (il centro ricerche del magazine inglese) in collaborazione con la Fondazione Barilla. Insieme hanno analizzato la sostenibilità del sistema alimentare di 34 Paesi del mondo che rappresentano l’87% del Pil globale e i 2/3 della popolazione.
I voti valutano essenzialmente tre «materie»: spreco di cibo, agricoltura sostenibile, sfide nutrizionali. L’Italia, si è detto, è la prima della classe nella sostenibilità della produzione agricola, il che le permette di stare al settimo posto nella classifica generale nonostante i voti non brillanti nelle altre materie. La Francia, invece, stravince nella prima voce, che è però fondamentale in un mondo in cui quasi un miliardo di persone vanno a dormire a stomaco vuoto mentre un terzo del cibo prodotto va sprecato. Una leadership, quella francese, che non dipende dalla ricchezza del Paese, se gli Emirati Arabi Uniti sono ultimi pur avendo il Pil pro capite più alto, e gli Usa vengono dopo la Grecia.
Che cosa fa la differenza sullo spreco, dunque? «La politica», risponde senza dubbi Leo Abruzzese, direttore dell’Economist Intelligence Unit. «Molti Paesi hanno un buon sistema a livello locale, la Francia ce l’ha a livello nazionale». I cugini d’Oltralpe nel 2013 hanno lanciato un Patto Nazionale contro lo spreco di cibo, nel 2016 hanno approvato una legislazione che rende obbligatorio per i supermercati passare l’invenduto ai banchi alimentari e impone ai ristoranti di riciclare gli avanzi e di dotarsi di «doggy bags».
Guido Barilla ricorda anche come alcune risposte verranno date dalla scienza, perché grazie alla tecnologia «parti prima considerate “unsafety” potranno essere riutilizzate». E nella voce «spreco», oltre alle perdite «a monte» dovute a cattive infrastrutture e trasporti inadeguati, rientra non solo il troppo cibo che compriamo, «ma anche le calorie in eccesso che assumiamo», spiega Luca Virginio della Fondazione Bcfn, «di cui non abbiamo bisogno e che poi hanno conseguenze negative sulla nostra salute».
La Stampa – 6 dicembre 2017