L’Asl: una donna se ne occupa, non sono abbandonati. Ma i veterinari: senza microchip non è responsabile
A vederli trotterellare nel piazzale tra le auto dei carabinieri e quella del medico legale, fanno quasi tenerezza. Eppure, poche ore prima, questi otto grossi cani hanno dilaniato un camionista, Vito Guastella, chino vicino al rimorchio del suo tir. L’uomo si è trascinato per alcuni metri, sperando di raggiungere una recinzione poco distante ma non ha fatto in tempo: lo hanno finito lì, sul selciato polveroso del piazzale di una ditta di trasporti a Biscottino, tra Livorno e Pisa. Quando la donna delle pulizie, poco prima delle undici, ha varcato il cancello e si è avvicinata al tir ha visto il corpo di un uomo a terra, ormai privo di vita, e i cani che si avventavano ancora su di lui.
«Sbranato – racconta un colonnello dei carabinieri, ancora sotto choc -. Delle gambe sono rimaste le ossa». Non ci sono testimoni a raccontare la tragedia. Quando quei meticci neri e marroni gli sono saltati addosso, Vito Guastalla, nato ad Alcamo, nel Trapanese, cinquant’anni fa, era da solo. Il camionista, dipendente di una ditta di trasporti, doveva agganciare il rimorchio alla motrice del camion. Una lavoro di rapido: infatti aveva lasciato il motore acceso. Forse ha visto i cani che si avvicinavano con fare minaccioso e si è spaventato. Forse ha avuto un malore e gli animali gli si sono avvicinati seguendo l’istinto predatorio. Ma dopo il primo attacco del branco, sospettano gli inquirenti, Guastalla era ancora vivo. Ferito, ha tentato di trovare un riparo: lo rivelerebbero le tracce di sangue sul selciato e isolate dalla Scientifica nel corso dei rilievi. Nel piazzale, in un raggio di diversi metri, i brandelli dei suoi abiti, la cintura spezzata a metà, e le scarpe.
Non era la prima volta che il branco veniva avvistato nella zona: il dipendente di una ditta nei paraggi racconta che, in passato, alcuni camionisti avevano esitato a scendere dai tir per il timore di essere morsi. Una donna romena, che vive in una roulotte, dava loro saltuariamente da mangiare. E’ stata lei, con l’aiuto di un po’ di cibo, ad aiutare i veterinari della Asl a catturarli. Gli inquirenti l’hanno sentita in caserma. I cani sarebbero entrati nell’area passando da un’apertura nella recinzione. Gli animali, custoditi in una struttura convenzionata, sono stati sottoposti alla profilassi antirabbica; un esame stabilirà se hanno una malattia che ha influito sulla loro aggressività. Poi l’autorità sanitaria deciderà il loro destino.
Alle polemiche di chi osserva che il branco avrebbe dovuto essere catturato prima, la Asl livornese risponde che non sono cani randagi perché «per legge, appartenenti al proprietario del terreno nel quale abitualmente dimoravano». «Se gli animali non hanno microchip – commenta il vicepresidente dell’Anmvi (Associazione nazionale medici veterinari) Raimondo Colangeli: – significa che non sono iscritti all’anagrafe canina e quindi non appartengono a nessuno. La signora romena potrebbe non avere formali responsabilità».
La Stampa – 29 febbraio 2012