Dal Corriere del Veneto. È il core business della Regione. La più importante delle sue competenze, quella che assorbe la gran parte del suo bilancio (8,4 miliardi su un totale di 12) impegnando ogni giorno quasi 90 mila persone. Stiamo parlando della sanità. Un settore delicatissimo, spesso strumentalizzato in campagna elettorale (lo scontro lungo l’asse Venezia-Roma è pressoché quotidiano), a cui tutti i candidati dedicano capitoli consistenti del loro programma, talvolta con soluzioni coincidenti. Partiamo dal dato che determina a cascata le scelte dell’amministrazione: il budget. I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, da Berlusconi a Renzi nessuno escluso, hanno operato tagli pesantissimi ai trasferimenti (solo l’ultima manovra impone una sforbiciata da 2,7 miliardi l’anno per i prossimi 3 anni, 240 milioni per il Veneto), costringendo la Regione ad una vigorosa quanto faticosa spending review .
A manovrare le leve è stato il segretario generale Domenico Mantoan, che in questi 5 anni ha molto rafforzato il suo ruolo, riducendo di pari passo l’autonomia dei direttori generali delle Usl (è un ex medico militare, il che ha aiutato).
Da lui passano le assunzioni del personale amministrativo e medico, gli investimenti (compresi quelli immobiliari), le autorizzazioni a coprire i primariati. Il risultato è positivo: anche l’ultimo bilancio è stato chiuso in attivo (più 4,3 milioni), l’agenzia di rating Moody’s e la Corte dei conti hanno dato il via libera (ma i magistrati invitano a tenere sott’occhio le Usl in cronico disavanzo come Venezia, Belluno, Verona e Padova) mentre gli analisti indipendenti dell’Agenas e della Scuola medica Sant’Anna di Pisa certificano l’alta qualità delle cure (ben 38 livelli essenziali di assistenza garantiti, tra cui i servizi domiciliari per i non autosufficienti, con un notevole afflusso di pazienti da fuori regione). Non è un caso che il Veneto sia stato scelto insieme all’Emilia Romagna e all’Umbria come Regione benchmark per l’individuazione dei costi standard da applicare poi in tutta Italia. Un equilibrio raggiunto razionalizzando e risparmiando dovunque fosse possibile (la spesa farmaceutica, per dire, è stata ridotta del 4,2% con prescrizioni più appropriate) e centellinando le assunzioni ma quanto ancora potrà durare? Difficile dirlo, se i tagli continueranno con questo ritmo. Il primo rischio è che Palazzo Balbi si veda costretto a reintrodurre l’addizionale Irpef, come accade nelle altre Regioni. Il secondo è quello dell’applicazione dei ticket regionali (oggi non ci sono) accanto a quelli nazionali. Inutile, invece, sperare nella riduzione dei canoni degli ospedali costruiti in project financing durante gli anni di Galan: l’Angelo a Mestre costa 12 milioni l’anno, l’ospedale di Santorso 7 milioni, quello a Schiavonia 4 milioni, quello di Montebelluna altri 5. Non si possono toccare, dicono in Regione, sennò si finisce in tribunale. E sempre alla stagione galaniana risale il buco accumulato fin dal 2001 dalle Usl verso i fornitori, 1 miliardo e 587 milioni che la Regione ha potuto saldare a oltre 7 mila imprese solo grazie ad un maxi prestito dello Stato che ora dovrà ripagare in 30 anni, a un tasso di interesse tra il 3,15% e il 4%.
Il più importante provvedimento approvato in questa legislatura è stato senza dubbio il nuovo Piano sociosanitario (più sanitario che socio), licenziato dal consiglio nel 2012 dopo una lunga gestazione che ha visto anche la messa a punto di un «libro bianco» ricognitivo. Atteso da 16 anni, sulla carta il Piano ha rivoluzionato il nostro «sistema salute». Nella realtà, però, la sua applicazione si sta rivelando lenta e difficoltosa, in parte vanificata dalle schede ospedaliere e territoriali varate un anno dopo, frenate o accelerate a seconda delle sensibilità elettorali dei consiglieri, in larga parte «annacquate» per volontà dei sindaci. Il risultato è che ancora non sono stati chiusi gli ospedali più piccoli e in disequilibrio, non sono stati tagliati i posti letto là dove sarebbe necessario, non sono stati dismessi i reparti di ostetricia con un numero di parti talmente basso da renderli potenzialmente a rischio. Il ritardo nella riduzione dei posti letto negli ospedali dipende anche dal rallentamento nella creazione dei corrispondenti posti letto sul territorio, nei cosidetti «ospedali di comunità» e nelle unità riabilitative che dovrebbero accogliere i pazienti dopo la fase acuta, prima del ritorno a casa. Travagliata anche la partenza degli ambulatori h24: la conflittualità con i medici di base è stata superata solo di recente (con 100 milioni in 4 anni ai camici bianchi) ma restano i nodi relativi all’assunzione degli infermieri e dei finanziamenti nel lungo periodo.
Sono ancora «in via di attivazione» le breast unit dedicate alle donne colpite dal tumore al seno e le stroke unit per le patologie improvvise, come l’ictus o l’infarto. Progressivamente sarà rafforzato il sistema d’intervento e trasporto in emergenza-urgenza (il Suem 118), che già oggi effettua 300 mila interventi l’anno assistendo 1 milione 675 malati, mentre non risultano pervenuti i centri operativi territoriali che dovrebbero aiutare il cittadino ad orientarsi sulle cure (sono attivi solo in fase post ricovero). Altra questione spinosa rimasta irrisolta dopo l’approvazione del Piano è la riduzione delle Usl. Attualmente sono 21 (più due aziende ospedaliere), sono troppe e lo si sapeva. Il Piano individua «l’ambito ottimale» tra 300 e 400 mila abitanti, il che porterebbe alla scomparsa di 6 Usl (e delle relative poltrone appannaggio dei dirigenti) ma finora non si è mossa foglia e i candidati sono di nuovo qui a promettere tagli su tagli. L’ipotesi più in voga è una Usl per provincia, si vedrà se questa sarà la volta buona.
Una delle nuove iniziative maggiormente pubblicizzate dalla Regione è l’apertura degli ospedali di notte e nei giorni festivi. I pazienti, liberi di scegliere in un ventaglio di orari più ampio, sono soddisfatti, questo è fuor di discussione, ma non è dato sapere se l’obiettivo primario, e cioè la riduzione delle liste d’attesa, sia stato effettivamente centrato: non esistono report ufficiali (si parla di un meno 7%) e il sospetto diffuso è che in realtà il numero delle visite non sia aumentato ma sia stato semplicemente «spalmato», peraltro con un aumento del costo del personale costretto agli straordinari (più 7 milioni su un investimento complessivo di 25 milioni l’anno). Sempre sul fronte del miglioramento del rapporto con l’utenza vanno ricordati gli steward nelle sale d’attesa e l’incremento dei servizi nei pronti soccorso, con bevande, giornali, wi-fi, prese per cellulari e tablet, tabelloni luminosi che indicano l’andamento delle visite evitando inutili sfuriate. Il progetto «Escape», che consente di scaricare direttamente sul computer di casa i referti di analisi ed esami, è a regime (con risparmi stimati in 72 milioni), così come è stata completata la digitalizzazione della «ricetta rossa» (altri 3,2 milioni risparmiati ogni anno). Non è invece ancora stato completato l’iter del fascicolo sanitario elettronico, vero punto di arrivo del processo di informatizzazione.
Capitolo investimenti: nel 2014 sono stati stanziati 70 milioni per l’ammodernamento dei macchinari (un cruccio di Zaia è quello di «non fermarli mai, farli lavorare sempre») e al «Confortini» di Verona è stato costruito il polo chirurgico più grande d’Europa, con 32 sale operatorie; quanto ai nuovi ospedali, il 2014 ha visto il completamento dell’ospedale unico della Bassa Padovana a Monselice (165 milioni d’investimento), l’apertura del padiglione «Jona» al Civile di Venezia (48 milioni), il rinnovamento degli ospedali di Montebelluna e Castelfranco (147 milioni), le elisuperfici per il 118 a Conegliano e al Civile di Venezia, mentre procedono al rallenty il nuovo ospedale unico del Veneto Orientale (i sindaci litigano) e quello dell’Ovest Vicentino. Questa legislatura è stata però soprattutto quella del naufragio del nuovo policlinico di Padova, «l’ospedale del Veneto» ad alta specializzazione che si voleva esempio internazionale, indissolubilmente legato alla ricerca e alla didattica dell’università che vanta una scuola medica antica di 8 secoli. Dopo il niet improvviso del Comune a Padova Ovest, Zaia e il sindaco Massimo Bitonci non hanno ancora individuato l’area su cui dovrebbe sorgere. E intanto il pendolo dell’eccellenza oscilla sempre più verso la concorrente Verona, patria degli ultimi quattro assessori alla Sanità.
Zaia «Modello valido che attrae pazienti» Il governatore: «In Italia siamo la Regione di riferimento per attività e prestazioni»
«L a sanità veneta è motivo di orgoglio, benchmark a livello nazionale per attività e prestazioni, conti in attivo da 5 anni e nessuna spesa aggiuntiva (ticket e addizionale irpef) per i cittadini». Lo sottolinea Luca Zaia, governatore uscente: «Un modello che funziona anche e soprattutto grazie alle eccellenze in campo medico, che possiamo offrire ai cittadini, anche a quelli fuori regione che nel solo 2014 hanno richiesto prestazioni per oltre 330 milioni di euro. Le 21 Usl venete sono quelle che hanno prodotto la minor spesa sanitaria pro capite in Italia secondo dati Istat e il Veneto è la regione con il minor tasso di ospedalizzazione d’Italia (7 giorni). Nel 2014 sono stati ripettati tempi d’attesa tra l’85% e il 100% degli oltre 68milioni di prestazioni erogate, con punte di eccellenza: il 100% delle prestazioni urgenti è stato erogato in un massimo di 72 ore. In Veneto si pagano solo i ticket nazionali imposti da Roma e il “superticket” da 10 euro a ricetta è stato ridotto a 5 per i redditi inferiori a 29 mila euro».
Continua Zaia: «Partiamo da qui per migliorare ancora. Sono stato il primo a proporre, inascoltato, una diminuzione del numero delle Usl, su questo ho in serbo sorprese, intanto stiamo studiando l’Azienda Zero per migliorare le performance di spesa negli acquisti e accompagnare il territorio nella miglior gestione del rapporto tra servizi erogati e spesa. Occorre quindi aumentare l’impegno, ma per farlo occorrono molti soldi, che il riparto nazionale non assegna mai a sufficienza. Il governo ci lasci almeno parte dei 21 miliardi di residuo fiscale attivo che vantiamo ogni anno e potremo farlo senza problemi, sia per il sociale che per la sanità. In Veneto la popolazione non autosufficiente è stimata in 194.000 persone, per loro abbiamo ideato e finanziato con 3,5 miliardi in 5 anni servizi dedicati e sei livelli di assegni mensili che vengono dati alle famiglie che assistono a casa un malato o un anziano. Dobbiamo continuare su questa strada.
Sono convinto che se si applicassero il «modello veneto» e i costi standard anche nel resto d’Italia otterremmo grandi risultati. Non torneremo indietro, anzi andremo avanti.
Moretti «Le Usl sono troppe: le ridurrò a 8» La candidata del centrosinistra: «Un piano di assunzioni per abbattere le lista d’attesa»
«U na sanità d’eccellenza per il bene di tutti i veneti». Alessandra Moretti, candidata del centrosinistra, presenta i suoi punti programmatici. Primo su tutti: ridurre il numero delle Usl. «Oggi in Veneto ne abbiamo 21, una ogni 238mila abitanti – sottolinea – Giusto per dare fare un paragone: In Emilia c’è un’Usl ogni 450 mila abitanti, in Lombardia una ogni 600mila. Mi preme sottolineare che ognuna di queste strutture ha un dirigente generale, sanitario e sociale. E un contorno di burocrazia che diventa difficile da gestire. E’ arrivato il momento di spostare risorse concrete dagli stipendi dei dirigenti ai cittadini. Proprio per questo propongo di ridurre le Ulss da 21 a 8. In questo modo saremo in grado di risparmiare complessivamente oltre 50 milioni, risorse che potranno essere reinvestite in servizi per i pazienti».
Capitolo liste d’attesa. «Per ridurle serve una doppia azione – spiega Moretti – Da un lato siamo chiamati ad agire sull’offerta, cioè sul numero dei medici e dei professionisti impiegati nel settore. A questo proposito, nei prossimi giorni illustrerò un piano di assunzioni ad hoc. Nel contempo occorre procedere con una razionalizzazione delle prestazioni. Vengono prescritti troppi esami: il più delle volte sono molto costosi in termini economici e alla fine si rivelano inutili».
Moretti annuncia poi l’istituzione di 330 gruppi di medicina integrata, con un presidio ogni 15.000 abitanti, per «limitare gli accessi al pronto soccorso. I pazienti hanno il diritto di avere risposte certe e celeri rispetto al loro stato di salute». Infine, i ruoli dirigenziali verranno assegnati a «persone competenti, non burocrati fedeli alla politica».
In tema di sociale, Moretti ricorda che «il rispetto e la capacità di sostenere i più fragili misura la qualità delle nostre istituzioni. Siamo stati per lungo tempo un modello di politiche sociali che si sono sviluppate dal basso, purtroppo da 5 anni a questa parte non è più così». Nel concreto, «è pronto un piano da 15 milioni per venire incontro a mamme e papà che si affidano agli asili nido. Inoltre istituiremo un voucher di 100 euro a favore dei nuovi nati».
Tosi «Così abolirò il ticket sanitario» Il sindaco: «Applicando i costi standard alle Usl recupereremo le risorse necessarie»
«Aboliremo il ticket sanitario. Nessun veneto dovrà più pagarlo». Flavio Tosi, già assessore regionale alla Sanità, ne è certo: «Numeri alla mano possiamo farlo: i nostri consulenti hanno già messo a punto il metodo. Tuttora le 21 Usl della regione sostengono spese diverse per gli stessi servizi. Per arrivare all’eliminazione del ticket, che i cittadini versano per il servizio sanitario nazionale, applicheremo all’interno di tutte le Usl i costi e i servizi standard. Che non sono semplicemente uno spauracchio da sventolare a Roma, salvo poi non applicarli neppure a casa nostra».
Come? «La programmazione regionale dovrà finanziare le Usl col parametro standard: le singole Unità sanitarie dal canto loro dovranno garantire un indice di efficienza gestionale che consegua l’equilibrio di bilancio. Gli eventuali utili di esercizio saranno tripartiti in misura proporzionale tra i dipendenti che li hanno prodotti, la popolazione assistita e l’Usl stessa, con un aumento del fondo per gli investimenti».
A proposito di Usl: «Con l’approvazione del Piano Socio Sanitario la Regione ha già definito i bacini dimensionali delle Usl (200-300 mila abitanti) e quindi i criteri di razionalizzazione del loro numero. Oggi quindi vanno onorati e applicati gli impegni presi con la legge regionale di approvazione del Piano, rimasta inattuata. Un percorso di razionalizzazione, su base provinciale, può essere delineato per una più omogenea gestione di una parte dei servizi centrali non strategici per il governo delle Usl. Delle strutture dismesse, a condizione che rispettino i parametri strutturali di sicurezza, potrà essere presa in esame la riconversione. Daremo poi massima attenzione al nuovo ospedale di Padova: è inaccettabile che continui l’imbarazzante siparietto di proposte e controproposte finalizzate all’immobilismo, di cui la Regione si sta rendendo protagonista a scapito di una delle realtà sanitarie più importanti d’Italia. La “cittadella della salute” di Treviso, poi, è ferma da due anni e mezzo. Chiudo parlando della spesa sanitaria: circa 8 miliardi all’anno. Per assicurare un flusso costante di benzina al motore del sistema produttivo sarà indispensabile garantire la certezza dei tempi di pagamento delle Usl: i termini, oggi fissati a 60 giorni, saranno ridotti a 30».
Berti «Meno dirigenti per dare più servizi» L’uomo del M5S: «E negli ospedali chiusi spazi destinati al co-working e alle start up»
«I n Veneto sono sufficienti sette Usl, una per provincia, ma il progetto va pensato e deciso ascoltando il territorio e i cittadini». Così Jacopo Berti, candidato del M5S, che aggiunge: «Dobbiamo tagliare i dirigenti per aumentare i servizi ed i posti letto. Questo si può fare aumentando e retribuendo meglio il personale, come per esempio la figura chiave dei tecnici radiologi, alzando le indennità di servizio per gli infermieri, i medici ospedalieri e le professioni sanitarie, che sono gli eroi della nostra sanità. Più personale, meglio pagato, equipaggiato in modo migliore per servire e aiutare i veneti. Un pensiero al mondo femminile, tanto prezioso in questo settore: bisogna fare contratti a tempo determinato per sostituzione di maternità e malattia, sempre e non a discrezione».
Osserva Berti: «L’unico mezzo per evitare che i vecchi ospedali chiusi diventino cattedrali nel deserto è destinare le strutture al co-working per le startup. Con questo sistema i nuovi lavoratori e gli imprenditori potranno aprire la loro aziende negli ospedali abbandonati, grazie al microcredito a 5 stelle che porterà 25 mila euro a ogni impresa e startup».
Per quanto riguarda infine le politiche sociali, Berti insiste: «E’ necessario tagliare i costi della politica e i vitalizi per aiutare i più bisognosi. Il reddito di cittadinanza serve a questo e a Ragusa, grazie ai tagli contro la casta, oggi le persone in difficoltà ricevono 360 euro al mese e gli studenti hanno i mezzi pubblici gratis. I ticket vanno inoltre rimodulati. Non possono esistere prestazioni che non convenga fare in convenzione ma privatamente perché con ticket costerebbero di più. Attualmente le esenzioni per reddito si basano sul reddito lordo del nucleo familiare e invece fino a pochi anni fa si basavano sull’Isee. Questo ha ridotto il numero di persone che usufruiscono delle riduzioni.
Oggi il nuovo Isee, nonostante due ricorsi al Tar vinti, prevede di comprendere tra i redditi le pensioni dei disabili. Dallo Stato queste pensioni sono percepite come un lusso e non un aiuto minimo nei confronti di persone svantaggiate».
L’esperto. Longo: «Il Veneto è frammentato, accorpi Usl, ospedali e reparti» L a logica del campanile frena lo sviluppo della sanità veneta.
La disamina è del professor Francesco Longo, direttore di «Oasi», l’Osservatorio della Bocconi sulle aziende e sul sistema sanitario italiano, che osserva: «Negli ultimi anni il Veneto si è distinto per un’ottima amministrazione ordinaria, ma si è dimostrato più lento nell’innovazione, frenata da esigenze di bilancio e dalla difesa del localismo, che resta molto forte».
Cosa fare?
«La sanità di oggi ha bisogno di ragionamenti di area vasta, non di mantenere tutti i piccoli campanili, inutili e pericolosi. Il sistema veneto è in buone condizioni, quindi in grado di rimettersi velocemente in asse, conservando la sua peculiarità di integrazione con il sociale».
Da dove partire?
«La maggiore debolezza è il numero eccessivo di Usl, una frammentazione unica in Italia, che ha pure salvato ospedali e reparti invece da accorpare. La qualità dipende dalla casistica: più ricca è, maggiore risulta la capacità della struttura di affrontare ogni patologia, proprio per l’esperienza accumulata. Viceversa, centri con numeri ridotti e scarsa casistica sono pericolosi».
In che senso?
«Faccio l’esempio dei punti nascita con meno di 800 parti l’anno, che vanno chiusi ma che il Veneto tiene: i professionisti impegnati in realtà così circoscritte non incontrano facilmente patologie complesse, perciò quando succede o non le riconoscono o non sono in grado di trattarle. Bisogna combattere la mentalità dell’ospedaletto sotto casa e relative proteste dei comitati, per far capire alla gente che per le malattie acute si può anche fare qualche chilometro. L’importante è che poi sotto casa ci siano i servizi territoriali, come gli ambulatori per i cronici e le cure intermedie per gli anziani non autosufficienti. L’ospedale deve curare le persone, gli over 75 multiproblematici vanno assistiti, non ricoverati nelle Medicine, dalle quali escono malnutriti e con piaghe da decubito. E’ la scelta peggiore del mondo ed è causa della difesa a oltranza degli ospedaletti da 150 posti».
Qualche ospedale il Veneto l’ha chiuso.
«E allora continui, anche con reparti e Usl. Lo so, è difficile spiegare alla popolazione che ci vogliono nuovi modelli di assistenza, ma la politica gioca un ruolo strategico. Il prezzo da pagare per mantenere in vita una frammentazione così spinta è la carenza di soldi per voci essenziali, come gli screening. La politica deve fare una scelta, capire ciò di cui hanno veramente bisogno i cittadini e riportare le risorse su questo. Vanno ristabilite le priorità. Un esempio: per effettuare le visite di notte, di dubbia utilità, si rischia di non avere fondi per la prevenzione, da porre invece in primo piano».
A proposito di fondi: e i tagli statali?
«Oggi la sanità deve affrontare due fenomeni esogeni. Il primo riguarda proprio la pesante riduzione del Fondo sanitario nazionale: da sei anni non cresce più mentre la spesa aumenta del 4% ogni 12 mesi, perciò è come se avesse perso il 24% di capacità di acquisto. Il risultato è che la sanità italiana spende 1800 euro l’anno per abitante contro i 2500 euro di Francia e Germania, a parità di conoscenze scientifiche, quadro epidemiologico, mercato di farmaci e dispositivi medici. Il nostro è dunque un sistema costretto al razionamento delle risorse, a una selezione molto dura di cosa pagare e cosa no, e la gente non lo capisce. Il secondo fenomeno è che il 30% degli italiani (i veneti sono 1,5 milioni, ndr) soffre di patologie croniche leggere, come ipertensione, diabete, asma, scompenso cardiaco, e consuma il 70% del Fondo sanitario nazionale».
Spesso i cronici sono causa di ricoveri impropri. Ma la rete territoriale prevista dal Piano sociosanitario in Veneto è ancora sulla carta.
«E qua emerge un altro dato. In Veneto ci sono 200mila anziani non autosufficienti, ma meno di un quarto trova risposta nel sistema pubblico territoriale, attraverso l’assistenza domiciliare o strutture dedicate. Una realtà che stride con la capacità della medicina odierna di trattare la maggior parte delle patologie, anche gravi come quelle oncologiche, in ambulatorio. E di ridurre a 7 giorni ricoveri un tempo superiori al mese».
E poi c’è il nodo delle liste d’attesa.
«Se davvero si vuole risolvere il problema, bisogna smetterla di svuotare il mare col cucchiaino e organizzare percorsi diagnostico-terapeutici coerenti con le necessità del cittadino. Mi spiego: i cronici sono per metà troppo trattati, cioè fanno 20 esami all’anno invece di 4, e per metà sottotrattati. Ovvero non si curano mai, perchè non sanno di essere malati, salvo poi intasare i Pronto soccorso e consumare il doppio quando si presenta l’evento acuto. Bisogna portare tutti in media, studiando per loro percorsi assistenziali personalizzati, con specialisti e medici di base, per evitare che chiedano prestazioni in modo disordinato. Il Veneto ha un sistema informatico avanzato, in grado di individuare facilmente entrambe le disfunzioni, e ha le competenze per fare il salto di qualità, cioè passare da una medicina di attesa a una di iniziativa».
Grazie pure ai conti in ordine.
«Sì, ma ci si è troppo concentrati sul pareggio di bilancio, ormai diventato il fine, invece del mezzo».
Il Corriere del Veneto – 5 maggio 2015