(PAOLO RUSSO – lastampa.it) – «Ho l’assicurazione ma se dovessi operarmi andrei nel pubblico, mi dà più sicurezza». È un ragionamento che fanno in molti, soprattutto quando si tratta di un intervento serio, magari al cuore o per la rimozione di un tumore. Ma pochi, o forse nessuno, sanno della nuova tendenza dilagante nella sanità, quella di affidare la gestione delle sale operatorie dei nostri ospedali ai privati. Per carenza di personale, è il ritornello di Regioni e amministratori quando si tratta di giustificare il passaggio di consegne. Salvo poi scoprire che l’appalto dei blocchi operatori costa molto più di quanto si spenderebbe decidendosi finalmente ad assumere il personale che manca. O anche a riorganizzare una rete di sale operatorie, che una recente ricognizione condotta dal ministero della Salute ha scoperto nella metà dei casi lavorare in media al ritmo blando di appena un intervento al giorno. Tanto che sono tantissimi gli ospedali che operano sotto i livelli standard di sicurezza, proprio perché fanno troppi pochi interventi per acquisire sufficiente esperienza e dimestichezza.
Ma oramai è così, la privatizzazione strisciante non risparmia più nemmeno il tempio sacro dei nostri ospedali: le sale operatorie.
L’ultimo ad averle appaltate ai privati è il Policlinico di Tor Vergata, quello dell’omonima università romana di cui era rettore il nostro ministro della Salute, Orazio Schillaci, prima di conquistare il suo scranno nel governo Meloni. Nonostante il buco da 100 milioni che rende rosso fuoco il bilancio del Policlinico, il suo direttore generale, Giuseppe Quintavalle, ha appena informato la Regione Lazio di aver dato il via libera alla proposta di Althea Italia, azienda leader nella gestione integrata delle tecnologie biomediche, per la ristrutturazione, l’allestimento e la gestione integrata dei blocchi A e B , oltre che della terapia intensiva e del day surgey. Che comprende anche la gestione delle sale, il servizio di telemedicina, l’assistenza domiciliare e la manutenzione delle apparecchiature. Un pacchetto completo, insomma. La scelta è stata giustificata specificando che il contratto di partenariato pubblico-privato costituisce «uno strumento determinante per la pubblica amministrazione», mediante il quale realizzare obiettivi strategici grazie a una serie di incentivi. In altre parole un affare. Per chi lo sia veramente è facile intuirlo dopo aver ascoltato le parole di Marco Scatizzi, presidente dell’Acoi, l’Associazione dei chirurghi ospedalieri italiani: «Sicuramente il costo degli appalti è nettamente superiore a quello del personale che bisognerebbe assumere per far gestire al pubblico, in massima sicurezza, le sale operatorie dei suoi ospedali. Invece stanno dilagando da Nord a Sud contratti di servizio con società private, che a volte riguardano solo la strumentazione, a volte anche gli anestesisti, gli infermieri di sala e persino i chirurghi». In pratica, sottolinea il loro rappresentante, «un sistema simile a quello dell’appalto ai gettonisti ma più in grande». Solo che così i costi finiscono nel capitolo «beni e servizi» dei bilanci di Asl e ospedali, da anni in crescita esponenziale proprio a causa degli appalti ai privati di vario genere. Un escamotage costoso, che viene utilizzato dai direttori generali delle aziende sanitarie per non sforare l’anacronistico tetto di spesa per il personale, ancorato per legge ai livelli del lontano 2004, in più diminuiti dell’1,4%. Un ostacolo che né questo né i precedenti governi si sono mai decisi a rimuovere. Fatto è che la privatizzazione delle sale operatorie prosegue sotto traccia.
Negli ospedali pubblici di Urbino e Pergola tempo fa è partita una procedura d’appalto triennale per la gestione di una serie di servizi, tra cui il pronto soccorso, i punti nascita e l’assistenza medica di anestesia presso il blocco operatorio. «Si tratta di una commistione pubblico-privato nella quale non risulta chiara la catena di comando», denuncia la Cgil Marche. E parlando di interventi chirurgici non è cosa da poco. Anche se l’assessore regionale marchigiano alla Sanità, Filippo Saltamartini, smentisce che si tratti di «privatizzazione dei reparti», definendola invece «acquisto di prestazioni mediche». Cavilli lessicali che non cambiano troppo la sostanza delle cose.
Agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria la ristrutturazione delle sale operatorie e è stata affidata alla Ngc, alla quale viene assegnata anche la loro gestione logistica e di approvvigionamento. La stessa società in Sicilia, al Policlinico Paolo Giaccone di Palermo, anni fa si è accaparrata un appalto di 27 milioni di euro nei cosiddetti «global service», poi rescisso per alcune inadempienze sulle quali ha indagato la Procura del capoluogo. Ma per capire quanto il fenomeno sia dilagante basta dire che la stessa Ngc vanta circa 90 nosocomi sotto contratto.
«L’ospedale di Voghera è al 70% in gestione ai privati», rivela il professor Scatizzi, secondo il quale questo processo di affidamento in appalto «è in forte accelerazione e si sta diffondendo a macchia di leopardo un po’ in tutta Italia».
Colpa dei vuoti in pianta organica. Ma anche della cattiva gestione di quel che abbiamo nel pubblico. Recentemente l’Agenas, l’agenzia pubblica per i servizi sanitari regionali, ha presentato il nuovo Piano esiti dei nostri ospedali, dove a causa dello spezzatino che si fa delle sale operatorie, in molti casi non si raggiunge la soglia di sicurezza in termini di interventi eseguiti in corso d’anno. Per il by-pass coronarico ad esempio solo il 24% delle strutture supera la soglia di sicurezza dei 200 interventi l’anno. E il dato è anche in netto peggioramento. Per la frattura al femore un ospedale su quattro fa così pochi interventi da mettere a rischio la gamba dei propri pazienti, mentre il 23% delle strutture è sotto gli standard per il tumore alla mammella e 163 ospedali non arrivano a fare 10 interventi l’anno di rimozione del tumore al fegato, considerati una soglia minima.
Storture di una organizzazione pensata per far fregare le mani ai privati. Anche a discapito della sicurezza degli assistiti.