La Stampa. Sulle liste d’attesa il ministro Schillaci non ci sta a finire sul banco degli imputati e in un question time al Senato punta l’indice contro le regioni, giudicate colpevoli di non aver nemmeno speso tutti i fondi, 500 milioni, che erano stati assegnati per ridurle. I lunghi tempi di attesa rappresentano un «problema che deriva da scelte errate fatte negli anni e che oggi siamo chiamati ad affrontare, come il blocco del turn over e il taglio di 37 miliardi a danno della sanità. Noi abbiamo stanziato fondi straordinari per l’abbattimento delle liste di attesa e ci attendiamo che tutte le regioni sappiano impiegarli tutti e al meglio», ha detto il titolare della Salute. Specificando poi che «il ministero ha condotto un monitoraggio sistematico dell’attività di recupero delle liste d’attesa» e l’esito è stato che ad oggi «circa 165 milioni resterebbero nelle casse regionali». Anche se poi, come sempre quando si parla di sanità, le cose cambiano, e molto, da regione a regione. Se infatti la quota complessiva rimasta nei cassetti è del 33%, il Molise non ha speso quasi nulla (l’1,7%), la Sardegna il 26%, la Sicilia il 28% e la Calabria, così come Bolzano, il 29%.
«Il ministero moltiplicherà i controlli – ha ammonito Schillaci – ma serve uno sforzo di tutte le regioni». Sicuramente di alcune più di altre. Basti vedere a quali differenti velocità marci il recupero delle prestazioni saltate durante il Covid. Secondo il report di maggio della Corte dei Conti sui ricoveri programmati la media nazionale è del 66%. Se però il Centro ha riassorbito il 71% delle liste di attesa e il Nord il 57%, al Sud non si è andati oltre il 40%. In Italia sono stati recuperati il 67% degli screening, ma mentre Piemonte, Trentino e Toscana hanno smaltito tutti l’arretrato e l’Emilia Romagna è al 99%, il Lazio, così come la Calabria non vanno oltre il 9%. Stessa musica quando si parla di prestazioni ambulatoriali, visite a analisi insomma. Qui la media nazionale delle prestazioni recuperate è del 57%, ma mentre al Nord si sale a quota 81% e al Centro si sta al 79%, nel Meridione si scende al 15%.
Differenze che si fa fatica a giustificare solo toccando il tasto dei soldi e della carenza di personale. Ai quali pure ha fatto riferimento Schillaci, affermando che dietro le lunghe liste di attesa ci sono «scelte errate fatte negli anni e che oggi siamo chiamati ad affrontare, come il blocco del turn over e il taglio di 37 miliardi nell’arco degli anni a danno della sanità».
Ma dalle recriminazioni il ministro è poi voluto passare alle azioni che intende mettere in campo per contrastare la piaga delle liste d’attesa. Anche poggiandosi di più sul privato. A Palazzo Madama il ministro ha infatti ribadito che «è consentito il ricorso alle strutture private poste in deroga alle limitazioni disposte dalla vigente normativa». Specificando poi in altra sede «che non c’è alcuna intenzione di privatizzare la sanità pubblica». Resta però da capire perché il governo deroghi nel dare più soldi ai privati ma non per medici e infermieri pubblici, visto che la spesa per il personale resta bloccata all’anacronistico tetto di quella del lontano 2004, per di più diminuita dell’1,4%.
Per ricoveri, visite, accertamenti e screening, ha riferito il titolare della Salute, il piano prevede: erogazione di prestazioni aggiuntive da parte di medici e professionisti sanitari con tariffa oraria aumentata; reclutamento di personale con assunzioni a tempo determinato. «In parziale alternativa – ha aggiunto – le regioni possono poi incrementare il monte ore dell’assistenza specialistica ambulatoriale convenzionata, con ore aggiuntive da assegnare rispetto all’accordo collettivo nazionale». Detta così sembra una roba da addetti ai lavori ma il passaggio è cruciale per capire se e come potranno assottigliarsi almeno le attese per le visite. Secondo un’indagine interna del dicastero, infatti, oggi il 42% degli specialisti ambulatoriali delle Asl lavora non più di 10 ore a settimana. Non al giorno si badi bene. Schillaci in un colloquio con La Stampa aveva espresso la volontà di allargare l’orario a 38 ore settimanali per tutti. Solo che gli specialisti ambulatoriali sono pagati a ore e per farli lavorare tutto quel tempo in più occorrono soldi. Tanti soldi. Quelli che al Senato il ministro è sembrato scaricare sulle spalle delle regioni, che non si capisce a quali fondi andrebbero ad attingere.
Nemmeno una parola invece sul ruolo dei medici di famiglia nelle nuove case della salute, i maxi-ambulatori aperti sette giorni su sette in tutte le ore diurne che dovrebbero fare da filtro ai Pronto soccorso. Le regioni chiedono che i medici di famiglia ci vadano a lavorare senza se e senza ma a rapporto di dipendenza. Loro puntano i piedi e il ministro per ora tace. pao.rus.—