Il sistema sanitario più universalistico del mondo, quello che offre gratis a tutti tutta l’assistenza di cui si ha bisogno, si infrange contro il muro delle liste d’attesa. Perché quando si arriva a dover attendere un anno o più per un esame diagnostico e mesi per una visita specialistica le alternative sono due: ricorrere al privato pagando di tasca propria o rinunciare del tutto alle cure. La prima strada l’ha percorsa il 54% degli italiani spendendo qualcosa come 37 miliardi di euro nel 2021, alla rinuncia sono invece stati costretti in 5, 6 milioni. Erano poco più della metà solo due anni prima.
Le cause di questo imbuto sono molteplici e in parte analizzate nelle precedenti puntate di questa inchiesta: carenza di personale medico negli ospedali e negli ambulatori delle Asl, 18mila macchinari diagnostici come tac e risonanze oramai obsoleti e per questo non di rado fuori uso, scarso filtro dei medici di famiglia nel territorio e, non da ultimo, il Covid, che ha tenuto per almeno due anni molti pazienti lontani dagli ospedali e dalle altre strutture sanitarie, facendo saltare oltre 100 milioni di prestazioni sanitarie.
E così si è arrivati a quasi due anni di attesa per una mammografia, circa uno per un’ecografia, una tac o un intervento ortopedico. Mentre gli screening oncologici accusano ritardi in oltre la metà delle regioni e sono in calo le coperture per i vaccini, non solo quello anti Covid.
L’ultimo “Rapporto civico sulla salute” di Cittadinanzattiva rileva attese fino a 720 giorni per una mammografia, circa un anno per Ecografie e Tac, sei mesi per una risonanza, 100 giorni per una colonscopia. Ma si attende un anno anche per una visita dal diabetologo, 300 giorni per farsi visitare da un dermatologo, un reumatologo o un endocrinologo. Persino per l’oncologo, che si presuppone sottenda qualche urgenza, si aspettano anche più di due mesi. Un anno si può aspettare per un intervento chirurgico al cuore o per riparare una frattura, 180 giorni per operare un tumore. Nel 2021, l’11% delle persone ha dichiarato di aver rinunciato a visite ed esami per problemi economici o legati alle difficoltà di accesso al servizio.
Come al solito le cosa cambiano poi da regione a regione, con alcune situazioni particolarmente critiche. Ad esempio in Sardegna dove la percentuale sale al 18, 3%, con un aumento di 6, 6 punti percentuali rispetto al 2019; in Abruzzo la quota si stima pari al 13, 8%; in Molise e nel Lazio la quota è pari al 13, 2% con un aumento di circa 5 punti percentuali rispetto a due anni prima.
Per il 57% delle regioni si segnala la sospensione o l’interruzione del normale svolgimento degli screening per tumore alla mammella, alla cervice, al colon retto. I danni dell’interruttore della prevenzione posizionato su “off” li vedremo con il tempo. Intanto, informa la Favo, la federazione delle associazioni dei malati oncologici, ogni persona colpita da tumore arriva a spendere di tasca propria 1. 841 euro l’anno, parte dei quali proprio per gli esami diagnostici.
In realtà per gli assistiti un modo per liberarsi dalla trappola delle liste d’attesa c’è e sarebbe quello di vedersi applicato il diritto sancito da un decreto legislativo del 1998 che consente di rivolgersi al privato pagando il solo ticket quando il servizio pubblico non rispetta i tempi massimi di attesa: 72 ore se urgente (codice U sulla prescrizione), 10 giorni se da erogare a breve (B), entro 30 giorni le visite e 60 gli esami diagnostici se c’è la lettera P di programmabile. Ma quel diritto è di fatto non garantito per una serie di motivi.
Prima di tutto Asl e ospedali non forniscono quasi mai i moduli per fare richiesta di ricorso al privato. Poi per aggirare l’ostacolo in molti siti regionali vengono indicati tempi di attesa non veritieri ma in linea con quelli massimi consentiti. Non da ultimo quando i tempi si allungano le stesse aziende sanitarie pubbliche, ma anche quelle private convenzionate, chiudono illegalmente le agende di prenotazione per evitare di dover erogare prestazioni che poi non verranno rimborsate dalla Regione perché fuori budget. Cosa che solitamente inizia a verificarsi già dopo la prima metà dell’anno.
Per uscire da questa situazione il ministro della Salute, Orazio Schillaci ha indicato due strade, entrambe bocciate dalle associazioni dei medici pubblici: alzare l’offerta del privato, dare un aumento ai medici che si mettono a disposizione per più ore di lavoro. «Stiamo valutando i risultati delle misure messe in campo fino ad oggi. In base a tali risultati – dichiara il ministro a La Stampa– cercheremo di investire le risorse in iniziative che ci consentano di recuperare le prestazioni inevase, anche con il contributo del privato accreditato. Ma con rigidi controlli sulla qualità e l’appropriatezza delle cure. Dobbiamo però garantire anche una remunerazione più adeguata ai medici che svolgono l’attività aggiuntiva dentro gli ospedali. È assurdo pagare quattro volte tanto professionisti esterni presi in affitto, quando ci sono quelli interni che già lavorano in team e garantiscono un alto livello di specializzazione».
Intanto un ordine del giorno di FdI approvato dal Parlamento impegna il Governo a valutare l’opportunità di abrogare il tetto di spesa per i privati convenzionati. E siccome le risorse quelle sono, significherebbe dare più soldi a loro a discapito del pubblico. Far lavorare di più i camici bianchi pagandoli extra fa invece proprio arrabbiare i medici ospedalieri. «Non siamo addetti alla catena di montaggio ma eroghiamo cure. Vogliamo essere retribuiti per il nostro lavoro ordinario e invece si avvantaggiano i liberi professionisti che con la flat tax vedono ridursi la tasse dal 41 al 15%. Un regalo alle cooperative che affittano medici a costi quadruplicati», tuona Pierino De Silverio, segretario nazionale dell’Anaao, il sindacato di categoria. La soluzione per gli ospedalieri c’è ed è una sola: «Assumere personale rendendo dignitoso e sicuro per tutti il lavoro in ospedale». Dove trovare le risorse per farlo resta però un rebus. —
La Stampa