Dal 2001 la competenza è delle Regioni e le cose non vanno meglio. La legge Calderoli, secondo gli esperti, peggiorerà il quadro Il Mezzogiorno arranca: con le nuove regole aumenteranno i viaggi per curarsi e chi ha più soldi avrà più medici e infermieri
Fino ad oggi le due linee hanno viaggiato parallele, con l’Autonomia differenziata potrebbero diventare divergenti. Quella di sopra si indirizzerà verso l’alto, quella di sotto ancora più verso il basso. Non c’è punto di osservazione migliore della Sanità per comprendere l’impatto che avrà la riforma approvata mercoledì scorso. Dal 2001 le competenze legate all’assistenza ai cittadini sono infatti in gran parte già assegnate alle Regioni. Si è portato avanti un federalismo che avrebbe dovuto risollevare chi era più in difficoltà. Spoiler: le cose non sono andate bene, perché le diseguaglianze tra Nord e Sud sono rimaste più o meno le stesse, come dimostrano i dati. Ma l’Autonomia differenziata, secondo molti osservatori, tra i quali sindacati, ricercatori universitari e non, centri studi, partiti di opposizione, professionisti, farà di peggio e cioè rinforzerà alcuni di coloro che sono già forti e farà sprofondare chi è debole. Soprattutto sposterà professionisti e pazienti verso le Regioni che lavorano di più e meglio. Alla faccia del sistema sanitario pubblico e universale. Infine, la riforma viene approvata mentre il ministero alla Salute guidato da Orazio Schillaci continua a fare provvedimenti di carattere nazionale come il dl sulle liste di attesa, che alle Regioni non dà finanziamenti ma regole.
Promossi e bocciati
Parlare di Nord e Sud significa semplificare. Ci sono infatti tre o quattro gruppi di Regioni dove l’assistenza è diversa. «Perché il Nord Est, ad esempio, va meglio del Nord Ovest», spiega Federico Spandonaro, professore a Tor Vergata che ha da poco presentato la dodicesima edizione del rapporto Crea sanità. In base alle performance, lo studio divide le Regioni tra quelle promosse con voti alti, quelle che hanno la sufficienza, quelle “rimandate” e quelle fortemente insufficienti. Nelle ultime due categorie ci sono Sardegna, Campania, Lazio, Umbria, Abruzzo e Puglia e infine Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria. «Le diseguaglianze in questo settore ci sono sempre state dice Spandonaro – già nel ‘78 era stata fatta una legge per eliminarle. Di recente, per fortuna, il Sud è un po’ cresciuto». Ma sono migliorate anche le realtà più virtuose, che tra l’altro offrono molte prestazioni “extra Lea”, cioè al di fuori dei Livelli essenziali di assistenza, il minimo comun denominatore dei servizi sanitari. Sono dei precursori dei Lep, Livelli essenziali di prestazioni, voluti dalla nuova riforma.
I numeri del disastro
Ci sono un’infinità di numeri che raccontano la Sanità italiana. Bisogna partire dall’aspettativa di vita, legata a filo doppio all’assistenza. Ebbene, se nel 2023 quella delle donne in Italia era di 85,1 anni, si passa dagli 86,5 anni del Trentino-Alto Adige agli 83,6 della Campania. Per gli uomini la media è di 81,1 anni e in cima e in fondo alla classifica ci sono le stesse Regioni, con 82,2 e 79,4 anni. Di recente è stato sollevato anche il caso della mortalità neonatale. Al Nord riguarda 1,14 italiani nati vivi ogni mille, al Centro 1,42 e al Sud 2,24 (per gli stranieri i tre dati sono 2,10, 2,91 e 3,97). «Il Sud non è cresciuto anche a causa dei piani di rientro per le realtà locali con i bilanci in rosso, che hanno molto limitato le possibilità di investimento», dice Guido Quilici, presidente del sindacato di medici ospedalieri Cimo.
Senza soldi non si attivano servizi. Secondo Istat al Nord ci sono 98,5 letti di residenze per anziani, Rsa, ogni 10 mila abitanti, al Centro sono 56,5 e al Sud 33,4. I letti ospedalieri, dice il ministero alla Salute, sono 3,7 per mille abitanti in Piemonte, 2,6 in Sicilia e 2,2 in Calabria. Il rapporto Svimez “Un Paese, due cure” ha ricordato che nel 2022 hanno aderito allo screening per il tumore alla mammella il 70% delle donne italiane tra 50 e 69 anni, ma si va dall’80% del Nord al 76% delSud fino al 58% del Mezzogiorno. Nel 2022 140 mila malati sono usciti da Sicilia, Calabria, Puglia e Campania per ricoverarsi in ospedale. Ben 62 mila di loro (il 44%) è andato in Lombardia (di gran lunga la più richiesta, con 32 mila ricoveri), Emilia-Romagna e Veneto. Un maxi esodo, che non si riesce ad arginare.Ancora più viaggi per le cure
Con la riforma dell’Autonomia differenziata le cose peggioreranno. Ne è convinto Piero Di Silverio, segretario del sindacato dei medici Anaao. «Alcuni cittadini delle zone con meno gettito fiscale, e meno soldi per la Sanità, andranno nel privato. E chi non può pagare? Cercherà di spostarsi nelle Regioni più ricche ed efficienti, aumentando il numero dei viaggi della speranza. Ma la domanda da parte di chi arriva da fuori potrebbe diventare troppo alta da sostenere per le realtà del Nord». Che succederà a quel punto? «Sempre grazie all’Autonomia differenziata – dice il sindacalista – le Regioni più sane potranno dire: “Non ho più budget per curare chi arriva da fuori, tra l’altro facendo aumentare anche le mie liste di attesa, quindi nonaccetto altri pazienti”. Si azzera il principio solidaristico: chi curerà quei malati?».
L’esodo dei professionisti
Spandonaro è tra coloro che ritengono necessari altri due anni per l’avvio della riforma. «Bisogna capire per quali materie chiederanno l’autonomia le Regioni più forti. Il vero rischio è la competizione, intanto sul personale ». In effetti la questione di medici, infermieri e altri professionisti della Sanità è la più sentita, anche da Di Silverio e Quilici. «Con la possibilità di scrivere i propri contratti, chi ha più soldi a disposizione potrà assicurare paghe più alte – dice il capo di Anaao – Si creerà una mobilità professionale importante, soprattutto tra gli infermieri. E le Regioni più povere avranno difficoltà a reperire il personale, cosa che renderà peggiore il loro sistema sanitario e spingerà ancora più cittadini a cercare cure altrove. Così si creerà un’Autonomia selvaggia».
Il tutto, tra l’altro, con la grande incognita dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, che devono essere ancora definiti e soprattutto finanziati.