Il tutto accade alla vigilia di un Documento di economia e finanza che non avrà gli strumenti per dare una risposta: anche perché la questione è strutturale, e travalica di parecchio gli spazi asfittici della politica quotidiana e del dibattito che l’accompagna. E con le sue dimensioni supera le singole responsabilità di questo o quel Governo, per abbracciare un’intera stagione politica e tecnica cadenzata da Esecutivi dalla vita media breve o brevissima; stagione nella quale scostamenti, prepensionamenti variegati e bonus dominati da quello «Super» hanno appeso i conti pubblici a un cappio sempre più grande di spesa rigida che strozza quella discrezionale, come appunto quella da dedicare a sanità, scuola e così via.
Sono come sempre i numeri a offrire una strada chiara nel caos delle polemiche più o meno interessate dalla contingenza politica o economica. Primo: è vero che in valore assoluto il finanziamento pubblico alla sanità è cresciuto con la manovra, che nonostante l’asfissia dei conti ha messo sul piatto 3 miliardi per quest’anno, 4 per il prossimo e 4,2 dal 2026; con la conseguenza che il contatore segna valori anche superiori a quelli indicati da Meloni, e tratti verosimilmente dall’ultimo rapporto Agenas, e sfiora i 136 miliardi quest’anno per superare i 140 miliardi dall’anno prossimo.
È altrettanto certo però che in finanza pubblica i valori nominali contano fino a un certo punto, soprattutto all’indomani dello shock inflattivo più grave degli ultimi decenni, e che proprio per questo il parametro più rilevante è nel rapporto con il Pil: come accade per il debito, che a fine 2023 valeva 289,3 miliardi in più rispetto al 2020 pesando però sul prodotto interno lordo 17,6 punti in meno rispetto all’anno della crisi pandemica (137,3% contro 154,9%).
Qui il quadro si complica, soprattutto dopo gli ultimi calcoli dell’Istat che il 1° marzo scorso ha rivisto al rialzo le dimensioni del Pil italiano. Aggiornando i dati della NaDef 2023 alla luce della manovra e dei riconteggi Istat, il finanziamento sanitario di quest’anno si attesta al 6,27% del Pil, livello sostanzialmente replicato l’anno prossimo prima di un’ulteriore limatura al 6,20% nel 2026. Si tratta dei livelli più bassi dal 2007 a oggi.
Per tornare al 6,7% del prodotto, cioè ai livelli del 2022 messi a confronto dalla magistratura contabile con le dotazioni assai più consistenti degli altri maggiori Paesi europei, servirebbero quindi 9,2 miliardi quest’anno e 9,4 il prossimo. Ancora più ciclopiche sono naturalmente le cifre necessarie per raggiungere l’8% del Pil, livello giudicato il minimo indispensabile dall’appello degli scienziati: per arrivare lì servirebbero 32 miliardi quest’anno, e 37,4 il prossimo. Numeri nemmeno immaginabili con i conti che si stanno faticosamente elaborando al ministero dell’Economia in questi giorni.
Un altro fattore aiuta a capire perché l’ancoraggio al Pil è significativo mentre i valori assoluti restituiscono un’ottica deformata. Si tratta dell’inflazione, che in questi anni ha svuotato di peso l’involucro dei dati nominali. I 136 miliardi del finanziamento di quest’anno sono infatti 13,9 in più rispetto ai fondi del 2021, e segnano quindi un aumento dell’11,4 per cento. Negli ultimi tre anni però i prezzi hanno registrato un incremento cumulato del 13,9 per cento: in termini reali, di conseguenza, il sostegno pubblico al sistema sanitario nazionale è diminuito del 2,2%; nonostante la dote extra assicurata dall’ultima legge di bilancio, che ha potuto tamponare un po’ la falla ma senza nemmeno avviare un processo della forza necessaria a tenere il passo dell’invecchiamento della popolazione e dell’evoluzione di bisogni e tecnologie sanitarie.
Primo Piano il Sole 24 Ore