Non è giusto che le persone mugugnino ogni giorno e che il lavoro sia un disagio. Il disagio produce disagio e coinvolge inevitabilmente i malati e a catena tutti gli operatori che lavorano insieme. È giunta l’ora di rivendicare il diritto a lavorare almeno in modo decente.
Mi chiedo spesso: se tutta la sanità è come in una difficoltà crescente quali le ricadute sulle persone? “Non può non essere” che le cose vanno male senza che le persone paghino un prezzo. Questo modo di ragionare però regge se il “non può non essere” è affiancato da una clausola che è quella delle “cose non impedite”: se le cose vanno male e le persone non sono in grado di impedire delle ripercussioni allora “non può non essere” che paghino un prezzo. In cosa consiste questo prezzo? Diciamo che il prezzo si chiama disagio. Ma disagio è una parola generica. Vi è quello regolarmente denunciato dalle professioni, dai sindacati, dalle associazioni dei malati e vi è quello nascosto, silente, dissimulato, personale che si accumula giorno dopo giorno. E’ quello vissuto e raccontato dalle persone che dicono semplicemente ciò con il quale hanno a che fare ogni giorno. Questo disagio, che in misura minima fa parte del gioco, quando supera certe soglie diventa un problema serio e a certi livelli ha effetti distorcenti sulle professioni che finiscono per lavorare male, in condizioni avverse, in contesti sfavorevoli. Per le nostre professioni dovrebbe valere il principio che esse non possono essere il loro contrario, cioè non professioni o quasi professioni.
Ma se il disagio professionale è forte allora “a cose non impedite non può non essere” che non si abbiano forti problemi professionali con inevitabili ricadute anche gravi sui malati. Oggi purtroppo le “cose non impedite” sono tante gli operatori da per tutto lavorano male e i malati da per tutto non stanno meglio. Oggi in sanità è concepibile assistere i malati sulle scrivanie perché le barelle sono finite, fornire loro trattamenti economicamente condizionati, assicurare loro condizioni minimali di assistenza, far pagare delle tasse sulle loro malattie, tenerli in lista di attesa per mesi, far portare loro le lenzuola e i farmaci da casa ecc. La crisi della sanità è un milieau di definanziamento, di regressività, di antieconomicità, di politiche deboli, di scelte sbagliate, di cose che non hanno funzionato come si sperava, di dubbia governabilità, di tanti abusi e corruzione… per cui alla fine… l’inconcepibile diventa concepibile fino a mettere in discussione le deontologie e quindi il buon esercizio delle professioni. Il transito tra l’inconcepibile e il concepibile passa non sopra ma dentro gli operatori che fino a un certo punto assorbono, riorganizzano, compensano… ma poi in un modo o nell’altro pagano dazio.
Poco tempo fa ero all’università di Bologna al S. Orsola Malpighi per delle lezioni ad un master in coordinamento, ed ho chiesto a 33 operatori sanitari (infermieri, tecnici, ostetriche) di descrivere il loro disagio per iscritto. Ben 135 segnalazioni argomentate di disagio che organizzate come un “campo” quindi con una particolare metodologia rivelavano:
-44 diversi tipi di problemi di organizzazione del lavoro
-44 segnalazioni relative a problemi contrattuali
-11 segnalazioni sulle difficoltà relazionali con gli altri
-36 segnalazioni sulla negazione della professione
L’analisi di questo piccolo “campo”, che ovviamente per le sue dimensioni vale quello che vale, mostrava con chiarezza che i problemi segnalati erano riconducibili almeno a tre cose:
a problemi strutturali e sovrastrutturali del sistema sanitario e alle politiche sanitarie in corso, cioè essi sono la spia di una crisi profonda di sistema; al di la delle specificità delle professioni i problemi segnalati sono comuni a tutte le professioni perché comune è la crisi di sistema che le logora nella decadenza non esiste contesto di lavoro che metta al riparo le professioni da problemi seri di disagio salvo qualche eccezione
Considerazione finale: rispetto al disagio lavorativo, gli operatori da un bel po’ hanno cominciato a farci il callo, cioè si stanno abituando a lavorare sempre peggio e questo è pericoloso e ingiusto. Non è giusto che le persone mugugnino ogni giorno e che il lavoro sia un disagio. Il disagio produce disagio e coinvolge inevitabilmente i malati e a catena tutti gli operatori che lavorano insieme. Ma il disagio fa anche ammalare gli operatori. Se per curare bene la gente ci si deve a nostra volta ammalare si ammetterà che quanto meno è paradossale.
Oggi gli operatori della sanità debbono decidere se il disagio è il loro contributo all’accountability”, è il loro modo di essere “responsivi”, il loro sacrificio responsabile alla spending review, oppure se è una cosa da impedire perché semplicemente per un sacco di ragioni “non può essere che esso sia”. Penso che sia giusto rivendicare il diritto a lavorare almeno in modo decente, per questo la deontologia si deve dare una svegliata, lo dico ai medici alle prese con la riscrittura del loro codice deontologico, ma anche ai sindacati, ai collegi, alle associazioni di categoria. Se vale il principio che una professione non può essere non professione, cioè non può essere il suo contraddittorio, allora è arrivato il momento di essere costruttivamente intolleranti e cominciare a dire responsabilmente dei no.
Ivan Cavicchi – Quotidiano sanità – 14 maggio 2013