Franco Pepe. La plasmaferesi per liberare il sangue dai Pfoa si farà a Vicenza. A metà settembre, al San Bortolo, nel centro di medicina trasfusionale diretto da Alberta Alghisi, l’avvio di un progetto voluto dalla Regione, ideato dal direttore generale della sanità Domenico Mantón, affidato per la realizzazione all’Ulss 8 e all’azienda ospedaliera di Padova. A Vicenza accederanno tutte le persone, quasi tutti ragazzi e giovanissimi, che, ai test dello screening in corso, hanno rivelato concentrazioni di Pfoa , l’acido perfluoro-ottanoico, fra i 100 e 200 nanogrammi. Padova farà , invece, da riferimento, con un trattamento che si chiama plasma-exchange, per i soggetti con valori di Pfoa superiori ai 200. L’operazione, un po’ la stessa che si fa normalmente per i donatori di sangue, verrà ripetuta 6 volte a distanza di 15 giorni una dall’altra. Sarà un servizio gratuito a base volontaristica. «Lo offriremo previa visita di idoneità – dice Alghisi, responsabile del Dimt, il Dipartimento-sangue provinciale – a coloro che ne faranno spontaneamente richiesta. Per i ragazzi ci sarà bisogno del consenso dei genitori».
Si potranno sottoporre alla plasmaferesi tutti coloro che finora (sono circa 2 mila) si sono presentati al maxi-screening in atto negli ospedali di Lonigo e Noventa. L’obiettivo, come noto, è di accertare l’incidenza dei Pfas sulla salute della gente della zona rossa, l’area di 180 chilometri quadrati popolata da oltre 300 mila persone, ritenuta maggiormente contaminata dai Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche di produzione industriale che per 30 anni hanno avvelenato il cuore del Veneto, con un inquinamento a danno di acque superficiali e falde che ha avuto come epicentro il Vicentino ma si è esteso nel Veronese e nell’Alta Padovana, fino a toccare Marca trevigiana, Veneziano e Polesine. Alla maxi-indagine biennale rivolta a 84 mila persone dai minorenni del 2002 fino agli adulti classe 1951 dei 21 Comuni del triangolo a rischio Vicenza-Verona-Padova, sono stati invitati i giovani di Lonigo, Atonte, Sarego, Brendola, Asigliano, Pojanae, Noventa, Montagnana.
«La plasmaferesi – spiega la primaria – è una procedura terapeutica che permette la separazione del plasma, la componente liquida del sangue in cui si trovano disciolti i Pfoa, dalla parte cellulare». In pratica il sangue viene filtrato. Si rimuove il plasma, per cui si portano via anche le sostanze tossiche, e si restituiscono piastrine, globuli rossi e bianchi. Tutto molto semplice. Un ago infilato nella vena. Si toglie la quantità di sangue che serve. Si preleva, con un separatore cellulare, il plasma, che verrà sostituito con una soluzione fisiologica, e si reinfondono gli elementi corpuscolati. Una specie di salasso. In questo modo si possono depurare notevoli quantità di sangue in un tempo relativamente ridotto. Mezz’ora di ospedale distesi in un lettìno, la ripulitura del plasma, ed è tutto finito. A convincere la Regione a dare il via a questo progetto i risultati, pienamente efficaci, ottenuti nei mesi scorsi su un volontario, residente nella latitudine rossa dei veleni, che ha fatto da cavia . Un esperimento condotto dalla stessa Alghisi: «La persona si è sottoposta a 5 sedute di plasmaferesi, e già dopo le prime 3 le concentrazioni di Pfoa erano scese da 150 a 100». Insomma una “dialisi” sui generis riuscita, identica a quella che negli anni 80 si faceva nei casi di avvelenamento da funghi. Ma anche un esperimento che farà storia scientifica «perché – dice la primaria – è la prima volta al mondo che si effettua. C’è stato nel 2014 uno studio canadese, ma sul prelievo di sangue intero». Un campo, dunque, da pionieri, e uno studio clinico esplorativo in una materia in cui non esiste alcuna certezza, ma solo ipotesi, e in cui pure gli esperti brancolano nel buio. I Pfas potrebbero essersi accumulati in altri organi, legandosi alle proteine, con lunghi tempi di eliminazione dall’organismo. Intanto Vicenza apre una prima possibile via.
Il Giornale di Vicenza – 23 luglio 2017