Dopo un balzo del 4,8% del valore dell’export, arrivato nel 2016 a quota 1,4 miliardi, l’industria dei salumi guarda con ottimismo alle prospettive di crescita oltreconfine nonostante le incognite che pesano sull’espansione nel mercato statunitense, dopo l’annuncio di nuove misure protezionistiche da parte dell’amministrazione Trump, e la chiusura dello sbocco russo, che fino a quattro anni fa valeva 55 milioni di euro e rappresentava il 4% del totale delle esportazioni.
La nuova frontiera, capace di neutralizzare il calo della domanda interna e di alcuni sbocchi esteri, è costituita dall’Asia. In Paesi come Taiwan, Corea del Sud, India e Cina l’industria del settore parte da numeri piccoli. Ma la previsione che nel medio e lungo termine possano aprirsi ampi spazi è condivisa, soprattutto dopo la rimozione da parte della Cina delle barriere che bloccavano l’importazione di carni suine fresche e di prodotti di breve stagionatura. A rallentare ancora la corsa in Asia è la burocrazia del gigante asiatico. «L’apertura della Cina è a macchia di leopardo – dice Nicola Levoni, presidente dell’associazione di settore Assica –, ma adesso possiamo beneficiare anche dell’eredità che ci ha lasciato l’Expo di Milano, in termini di buona reputazione sulla nostra capacità di garantire la sicurezza alimentare. Ora attendiamo con fiducia il nulla osta degli ispettori governativi, pur consapevoli che la cultura alimentare cinese, profondamente radicata, è molto diversa dalla nostra». La sfida asiatica riguarda circa 2mila imprese, per un totale di 32mila addetti, che realizzano un volume d’affari superiore agli otto miliardi. Numeri che confermano la forza di un settore che è un pilastro del food made in Italy e che all’estero si misura non senza difficoltà con una nuova ondata protezionistica.
In Europa lo sviluppo continua, negli Usa si assiste «dopo un biennio di crescita a doppia cifra – prosegue Levoni – a un rallentamento fisiologico. Negli Stati Uniti occupiamo ancora spazi di nicchia ma il vero problema è costituito dal giro di vite alle importazioni che è stato annunciato e che ha portato molte aziende a decidere di stare alla finestra, congelando gli investimenti, in attesa di capire se e come ci saranno ricadute». Tra il 2015 e il 2016 le esportazioni verso gli Usa sono passate da quasi 106 milioni a 100,7. Una flessione considerata meno preoccupante di quanto potrebbero esserlo nuovi dazi che coinvolgerebbero tutta la filiera, dai produttori alla rete dei distributori per arrivare agli operatori della logistica. Tra il 2008 e il 2016, ricorda Levoni, il fenomeno del protezionismo, «largamente diffuso anche nelle economie più avanzate, ha portato all’innalzamento di 4mila nuove barriere che rischiano di vanificare molti dei risultati raggiunti in passato con il superamento degli ostacoli non tariffari. Per questo stiamo operando fianco a fianco con le nostre istituzioni e con quelle europee per sostenere il lavoro che svolgono sul fronte tecnico-sanitario , in ambito commerciale e sul piano della diplomazia economica».
Natascia Ronchetti – Il Sole 24 Ore – 19 aprile 2017