Strangolato dalla crisi della sua attività commerciale, non è riuscito a pagare gli assegni di maternità a una sua dipendente per tre mesi, da giugno a settembre del 2012. Denunciato dall’Inps per il mancato versamento della cifra, circa 2.000 euro, si è visto iscrivere nel registro degli indagati per truffa ai danni dello Stato.
Non solo dunque l’omesso pagamento dei contributi ma la più grave contestazione di truffa in relazione a quanto dichiarato all’Inps. La vicenda dell’imprenditore bassopolesano, un 40enne difeso dall’avvocato Fulvia Fois, si è però conclusa positivamente in udienza preliminare a Rovigo.
Il giudice ha dichiarato di non doversi procedere perché la condotta del 40enne non trova corrispondenza con quanto previsto dal capo d’imputazione così come formulato dalla Procura, ovvero la truffa allo Stato. In sostanza, l’imprenditore bassopolesano non ha messo in atto artifizi e raggiri per non versare i contributi per la maternità della dipendente, e non c’è stato da parte sua nemmeno alcun dolo specifico.
Sempre per il giudice, il 40enne si è rivelato impossibilitato a pagare quel denaro perché non era a sua disposizione e, peraltro, la sua attività sta per chiudere i battenti. Il legale Fois si dichiara «soddisfatta che il tribunale di Rovigo abbia deciso seguendo la linea tracciata dalla Corte di Cassazione il 15 gennaio del 2013, che in un caso analogo ha assolto un imprenditore dall’accusa di truffa». Con quella sentenza di un anno fa la Suprema Corte ha stabilito che «non basta la semplice contestazione che non sia stato versato quanto dovuto al lavoratore».
Per parlare di truffa, sostiene la Cassazione, serve «la diversa e molto più articolata contestazione del fatto che il datore di lavoro trattenga le somme indebitamente portate a conguaglio in relazione a prestazioni di cui si è riconosciuto debitore per conto dell’ente previdenziale e corrispondenti a somme di denaro determinate nel loro ammontare e già fatte configurare come erogate al lavoratore».
A inizio novembre c’era stato un caso simile. Ovvero una sentenza di primo grado del tribunale di Rovigo che aveva riconosciuto le attenuanti a un imprenditore sessantenne rodigino del settore meccanico accusato di aver evaso 1,2 milioni di Iva nel biennio 2008-2009.
Durante il dibattimento in aula l’uomo aveva saputo dimostrare di aver compiuto questa scelta allo scopo di continuare a pagare gli stipendi ai suoi 18 dipendenti. Una linea che aveva convinto il giudice, tanto che per il sessantenne erano arrivati «solo» cinque mesi di condanna.
Antonio Andreotti – Corriere del Veneto – 23 gennaio 2014