La Stampa. «Siamo in balia di una speculazione internazionale che colpisce il Paese, le imprese e le famiglie, qualora il tema dei costi energetici non salisse al rango di priorità della nostra politica rischieremmo la tenuta sociale del Paese». Gianpiero Calzolari, il presidente di Granarolo, chiede un intervento del governo per scongiurare che l’aumento dei costi energetici faccia schizzare il prezzo del latte oltre i 2 euro al litro. Una richiesta condivisa con Giovanni Pomella, ad di Lactalis in Italia, la multinazionale francese che ha acquistato ormai dieci anni fa il marchio Parmalat.
Che cosa sta succedendo? Secondo le due imprese, leader e concorrenti sul mercato nazionale ma da ieri alleate per affrontare questa emergenza, «l’inflazione ha toccato in maniera importante, con numeri a doppia cifra, quasi tutte le voci di costo che compongono la filiera del latte». Assolatte, l’associazione delle imprese di trasformazione, ha fatto i conti: l’anno scorso, in queste settimane, il prezzo del latte spot (quello sfuso in cisterna, ndr) era di 39 centesimi, uno in più di quello pagato alla stalla. «Oggi, il primo viaggia su valori superiori ai 65 centesimi (+66%) e il secondo è arrivato a 57 centesimi (+50%)». E la corsa del latte spot non si ferma: «I contratti per l’autunno porteranno il prezzo del latte alla stalla fino a 60 centesimi», spiega il presidente Paolo Zanetti. E a questi rincari le imprese devono anche aggiungere l’aumento del prezzo del packaging e di altri componenti impiegati nella produzione di latticini. Ma è il costo dell’energia – «schizofrenico», secondo Calzolari – il vero problema.
Ecco i numeri: Granarolo deve fare i conti con «un’inflazione del 200% nel 2022 rispetto al 2021 e un rischio di oltre il 100% nel 2023 rispetto al 2022», spiega il presidente. E Lactalis registra un aumento del 220% della spesa rispetto all’anno scorso e una stima di un +90% nel 2023 rispetto al 2022.
Con questi incrementi è chiaro che la filiera del latte rischia di esplodere «con conseguenze disastrose» per migliaia di imprese «che sono in enorme difficoltà e rischiano la chiusura», spiega il presidente di Assolate. In pericolo anche migliaia di posti di lavoro. Fino ad oggi, infatti, le aziende hanno assorbito autonomamente un’inflazione che oscilla tra il 25% e il 30% ma dalla «primavera il prezzo del latte per il consumatore è cresciuto raggiungendo gli 1,75/1,80 euro/litro (dato Nielsen, ndr.) e potrebbe aumentare ulteriormente entro la fine dell’anno. Ecco perché Granarolo e Lactalis chiedono un intervento urgente del governo: «Serve un provvedimento transitorio per contenere un aumento dell’inflazione scatenato prevalentemente da questioni geopolitiche e da evidenti fenomeni speculativi». Dal loro punto di vista si tratta di un intervento necessario anche per tutelare le famiglie italiane, già alle prese con rincari generalizzati dei prodotti alimentari e con il caro-bollette.
Un intervento sollecitato anche dagli allevatori e dalle loro organizzazioni: Coldiretti, Confagricoltura e Cia-Agricoltori italiani. Nonostante l’aumento del prezzo alle stalle, infatti, almeno secondo Coldiretti, l’esplosione dei costi energetici e di alimentazione mette a rischio un allevamento su dieci. Sono 24 mila le stalle italiane che producono 2,7 milioni di tonnellate l’anno che alimentano una filiera lattiero-casearia che vale oltre 16 miliardi ed occupa più di 200.000 persone con l’indotto.
Ma Calzolari fa un passo in più perché è a rischio il futuro sostenibile della filiera: «Adesso la priorità è arginare i costi enormi del caro energia. I prezzi schizofrenici non permettono alle aziende di approntare piani industriali per realizzare le urgenti transizioni sostenibili». Ecco perché «il problema deve essere affrontato in sede europea come annunciato anche dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e sul piano nazionale correggendo, laddove necessario anche il Pnrr». —
Il commento. SE FARE COLAZIONE È COME FARE BENZINA
Chiara Saraceno. L’inflazione colpisce tutti, ma non nello stesso modo. Dipende da quanti margini di manovra sono consentiti dal bilancio familiare, dato che riguarda beni e servizi in molti casi essenziali, il cui consumo difficilmente può essere ridotto: oltre agli alimentari, beni energetici per uso domestico (energia elettrica, gas per cucinare e riscaldamento). Per questo le famiglie collocate nel primo quintile di reddito, cioè quelle con minore capacità di spesa e flessibilità di bilancio, subiscono la perdita maggiore, dato che colpisce la maggior parte dei loro consumi, se non tutti. Viceversa le famiglie più abbienti, pur dovendo pagare anch’esse di più per alimentari e beni energetici essenziali, hanno un paniere di consumi più ampio e variegato, su cui l’inflazione incide in modo differente. Inoltre possono compensare il maggiore costo dei beni essenziali riducendo il risparmio, o i consumi voluttuari.
Già a maggio il Rapporto annuale dell’Istat segnalava che l’accelerazione dell’inflazione negli ultimi mesi del 2021 e nei primi del 2022 era stata più marcata per le famiglie collocate nel primo quintile di reddito. A marzo 2022, la variazione tendenziale dei prezzi per questo gruppo di famiglie era risultata pari al 9,4%. Al contrario per le famiglie dell’ultimo quintile, più abbienti e con il livello di spesa equivalente più elevato), il tasso di inflazione nel primo trimestre 2022 era risultato del 5,5%: 1,3 punti al di sotto di quello registrato per l’intera popolazione e circa quattro punti percentuali inferiore al tasso di inflazione delle famiglie del primo quinto. La drammaticità del peso dell’inflazione sui ceti più modesti, non solo del primo quintile non può che aumentare con il continuo crescere dell’inflazione, riducendo ulteriormente la possibilità di effettuare consumi essenziali. L’allarme lanciato dagli allevatori sul prezzo del latte, ormai equiparato a quello della benzina, nella sua pesante materialità è anche drammaticamente esemplare di come si stia pericolosamente arrivando a un punto di non ritorno. Tocca un alimento che siamo abituati ad associare ai bisogni primari dei più piccoli, alle loro esigenze di crescita. Giustamente si sta ragionando sulla necessità di ridurre alcuni consumi energetici, a partire da una riduzione del riscaldamento. Ma per i ceti più modesti il razionamento rischia di essere, non il comportamento civico necessario per fare in modo che tutti si possa superare questa situazione difficile, ma l’esito di una impossibilità privata a far fronte ai costi, coinvolgendo non qualche grado in più o in meno di riscaldamento, docce più tiepida e più brevi, lavatrici fatte funzionare a pieno carico e via elencando i consigli degli esperti per un consumo energetico più oculato, ma la necessità di ridurre drasticamente anche i consumi essenziali: non riscaldarsi, non nutrirsi adeguatamente, sostituire pasti adeguati dal punto di vista proteico con pasti che riempiono, dando l‘illusione della sazietà. Non dimentichiamo che l’obesità, almeno nelle società sviluppate come la nostra, è una malattia della povertà, come documentano anche le ricerche dell’Istituto Superiore della Sanità sui bambini della scuola primaria, che mostrano come la distribuzione dell’obesità sia pressoché sovrapponibile a quella della povertà. Ma verrà anche ridotta la capacità di risparmio, che anche nella pandemia si è rivelata una risorsa preziosa in tempi di crisi e incertezza economica. Aumenterà invece l’indebitamento.
Nel pensare alle misure per contrastare gli effetti sulle famiglie dell’inflazione e dell’aumento de costi energetici, sarà il caso di tener conto del loro impatto differenziale sui diversi ceti