Lasciando da parte gli aspetti demagogici è possibile concentrarsi sugli aspetti perequativi già presenti nel sistema
Attento agli aspetti «politicamente corretti», graditi all’opinione pubblica ben al di là del loro effettivo valore, il governo Letta ha allo studio un provvedimento sulle cosiddette pensioni d’oro che possa rimediare alla recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimi (innovando la sua giurisprudenza in materia) gli interventi adottati, in sequenza, dagli esecutivi della passata legislatura. Il premier e il ministro Enrico Giovannini possono contare su alcuni suggerimenti, tutto sommato abbastanza convergenti.
La proposta più organica e suggestiva è senza dubbio quella illustrata da Giuliano Amato sul Sole 24 Ore, la quale prevede addirittura l’istituzione di un fondo in cui far convergere le risorse ricavate da una sostanziosa limatura dei trattamenti più elevati, da destinare a una sorta di reddito minimo a favore dei giovani di oggi quando saranno pensionati domani.
Un’altra proposta gode del sostegno di un arco di forze molto ampio: da Scelta civica ai settori renziani del Pd, fino a Fratelli d’Italia. Si tratterebbe di mettere in parallelo le pensioni d’importo più elevato erogate secondo il metodo retributivo (che ha in sé una «rendita di posizione» derivante dalla finalità del sistema di garantire un trattamento equipollente al reddito acquisito nell’ultima fase della vita lavorativa) con il ricalcolo del trattamento effettuato secondo le regole del modello contributivo. L’eventuale differenza tra i due importi sarebbe sottoposta, per un tempo necessariamente limitato, al prelievo di un contributo di solidarietà.
Una proposta ineccepibile, se non intervenissero alcuni inconvenienti di carattere tecnico. Un’operazione siffatta potrebbe essere condotta a buon fine solo nei settori privati, dal momento che l’Inps possiede i dati sulle posizioni individuali a partire dal 1974. Per i dipendenti statali, invece, dati equipollenti non esistono, per un motivo molto semplice: fino al 1996 non era stata costituita una vera e propria gestione pensionistica in questi settori. Le amministrazioni statali non accantonavano, quindi, la quota contributiva a loro carico in quanto datori di lavoro, ma si limitavano a riscuotere la quota a carico dei dipendenti e a liquidare, in proprio e in termini di cassa, la pensione all’atto della cessazione dal servizio.
Tutto ciò premesso, esiste la possibilità concreta di realizzare un po’ di equità intergenerazionale senza cadere in tentazioni demagogiche e incorrere nella sanzione del giudice delle leggi? Noi crediamo di sì. E di poter agire in modo strutturale e permanente.
Due sono le leve da usare. La prima è quella della rivalutazione automatica al costo della vita. Adesso, in condizioni normali, solo la fascia di pensione di importo fino a tre volte il minimo è rivalutata al 100%. Per le fasce superiori, multiple del minimo, si scende prima al 90% poi al 75 per cento. Si potrebbe allora, in modo legittimo, rimodulare, ulteriormente al ribasso, la curva della rivalutazione per le altre quote più elevate.
L’altra misura potrebbe riguardare, per la parte calcolata col retributivo delle nuove pensioni, l’aliquota di rendimento, adesso corrispondente, all’interno di un massimale annuale di 50mila euro lordi, al 2% per ogni anno di servizio (in maniera di ottenere l’80% della retribuzione pensionabile con 40 anni). Per le fasce retributive eccedenti, il rendimento scende gradualmente fino allo 0,90%. Nulla impedirebbe di assumere un ulteriore decalage (dello 0,50% e dello 0,30%).
Il Sole 24 Ore – 21 agosto 2013