«Rilanciare la crescita facendo leva su ogni strumento possibile. Difendere un’economia aperta, respingere il protezionismo, promuovere il commercio globale». Il vertice G20 si apre all’insegna della stagnazione secolare. Il male oscuro della globalizzazione domina la bozza di documento finale, su cui oggi si confrontano i leader che rappresentano l’85% della ricchezza del mondo. La presidenza cinese raccoglie l’allarme lanciato dal Fondo monetario e incalza: «Guai se vincono i nazionalismi, le barriere e i muri ».
I due pesi massimi del summit, il padrone di casa Xi Jinping e Barack Obama, offrono almeno un avvio positivo: l’accordo storico sull’ambiente è cosa fatta, le due superpotenze lo hanno adottato. Nel loro incontro bilaterale che precede i lavori del vertice, i presidenti cinese e americano annunciano «l’adesione formale» dei due Paesi al piano di Parigi per la lotta al cambiamento climatico, lanciato nel dicembre 2015 alla conferenza Cop21. Cina e Stati Uniti insieme generano circa il 40% delle emissioni planetarie di CO2, la loro azione in questo campo è determinante. Obama ne fa un pezzo portante della sua eredità: «La ratifica dell’accordo può essere vista come il momento in cui abbiamo deciso di salvare il pianeta». E da Hangzhou vuole rassicurare anche su quel che accadrà dopo l’elezione del suo successore: «La storia dimostra che una volta adottati questi accordi gli Stati Uniti li rispettano, al di là degli avvicendamenti politici». In realtà non è sempre stato così. Ma per non correre rischi Obama si era premunito perché quell’accordo non fosse un trattato formale, con impegni vincolanti e sanzioni: nella veste attuale non ha dovuto passare da una ratifica del Congresso. In quanto alla Cina, continua a produrre il 70% della sua elettricità dal carbone, il cui consumo è raddoppiato in un decennio; e ha varato la costruzione di altre 150 centrali a energia fossile. Per evitare che i leader mondiali venissero accolti da una nube di smog, Xi ha messo in vacanza forzata gran parte della popolazione di Hangzhou, e diversi quartieri della metropoli sono semi-deserti. Il leader cinese però è convinto che la svolta verde sia nell’interesse nazionale: «Quando la vecchia strada non porta da nessuna parte, bisogna provarne una nuova». Gli investimenti nella energie rinnovabili e la riconversione a uno sviluppo sostenibile potrebbero diventare un cantiere mondiale per creare ricchezza e lavoro, su basi nuove.
Proprio la ripresa economica che manca all’appello, è il tema dominante di questo G20. Il Fondo monetario parla di «rischio di stallo», abbassa le stime della crescita mondiale dal 3,1% al 2,9%. Il capo dell’Ocse Angel Gurria avverte che qualcosa non sta funzionando nell’unico strumento che fin qui era stato dispiegato: la politica monetaria: «Le banche centrali sono vicine al limite delle loro pos- sibilità, per stimolare l’economia ». Dopo otto anni di esperimenti audaci e perfino spericolati – tassi sottozero, creazione di liquidità, massicci acquisti di bond, aiuti alle banche – la cura è sempre meno efficace, il paziente dà segni di assuefazione, non reagisce più agli stimoli monetari. I sintomi di anomalia sono ormai ovunque: dal Giappone che scivola in recessione malgrado l’enorme pompa del credito interno, al caso della Danimarca dove si offrono mutui a tasso negativo.
Di fronte a un ristagno che coincide con diseguaglianze sociali sempre più acute, e un impoverimento del ceto medio in tutto l’Occidente, la direttrice del Fmi Christine Lagarde constata che «il pendolo politico oscilla in direzione contraria ai mercati aperti». E questo spaventa la Cina più di ogni altro paese: il suo poderoso decollo da tre decenni è strettamente legato al suo accesso ai mercati altrui. Xi Jinping è consapevole del pericolo, lancia un avvertimento: «L’isolazionismo non risolverà i problemi dell’economia globale». Pechino ha vissuto come uno shock il referendum Brexit (la Gran Bretagna era la sua migliore amica dentro l’Unione europea), segue con inquietudine la campagna elettorale americana dove Trump propone un superdazio del 45% sul made in China. Ma proprio alla vigilia di questo summit la Camera di commercio Ue a Pechino (che riunisce tutte le aziende europee presenti su questo mercato) ha pubblicato un rapporto in cui denuncia il protezionismo sempre più smaccato con cui le autorità cinesi aiutano le proprie aziende.
Il G20 a differenza del G7 è rappresentativo dei nuovi equilibri mondiali, ci sono dentro tutte le economie emergenti. È l’occasione per prendere il polso anche a loro. E tutte le ex-locomotive sono nei guai. In recessione Brasile, Russia, Nigeria, Sudafrica. La stessa Cina, che riesce ancora a mettere a segno una crescita del 6,6% (per quel valgono le sue statistiche ufficiali), ha chiesto di inserire nel documento finale del G20 il tema della sovra-capacità nel settore dell’acciaio: la metà della produzione mondiale è cinese, e interi giganti della siderurgia rischiano il collasso per mancanza di sbocchi. Altro segnale inquietante da un paese vicino è la bancarotta di Hanjin, colosso coreano del trasporto navale: il traffico marittimo è in crisi, subisce il contraccolpo dal rallentamento degli scambi internazionali. Resta il dubbio che il G20 possa concordare una ricetta comune, e poi applicarla. Accadde una volta sola, nel 2009, quando si trattava di coordinare gli interventi per salvare le banche dal crac sistemico.
Repubblica – 4 settembre 2016