La sentenza con cui giovedì la Consulta ha “corretto” la riforma Madia, imponendo l’«intesa» con le autonomie invece del «parere» nei capitoli che intrecciano le competenze locali, non si limita a far cadere i decreti su dirigenza pubblica e servizi pubblici locali, per i quali oggi scadono (invano) i termini della delega. La pronuncia dei giudici delle leggi, in punta di diritto, mantiene in vigore i provvedimenti dall’iter contestato ma già completato, ma li espone al rischio concretissimo di ricorsi fino a quando non saranno rinforzati dai decreti correttivi (per adottarli, il governo ha 12 mesi di tempo dopo la scadenza delle deleghe) che dovranno appunto ottenere l’intesa delle autonomie: in gioco ci sono prima di tutto le norme anti-assenteismo, con la sospensione in 48 ore e il licenziamento in 30 giorni per chi è colto a timbrare l’entrata per poi allontanarsi dall’ufficio, la riforma delle partecipate chiamata a ridurre «da 8mila a mille» le società pubbliche e le nuove regole per la scelta dei dirigenti sanitari.
Il percorso, in realtà, è ancora da definire, visto anche il carattere innovativo della pronuncia costituzionale, ma sembra prendere corpo l’idea che si possa intervenire solo sui decreti, evitando di tornare in parlamento a correggere la legge “madre”. L’esigenza di portare avanti la riforma è stata rilanciata anche ieri sera dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, intervistato dal Tg2 . L a bocciatura della Consulta, ha ribadito Padoan «è un segnale molto chiaro che il rapporto Stato-Regioni deve essere reso più semplice ed efficiente. È quello che sta scritto nella riforma costituzionale». E sul tema è intervenuto anche il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia augurandosi «che si ritrovi un’intesa con le regioni e non si smonti la riforma Madia perché il Paese va modernizzato a tutto campo».
In questo quadro, però, al momento non c’è più spazio per la riforma dei servizi locali, che conteneva tra l’altro il ricchissimo capitolo dedicato alle gare e agli incentivi anti-evasione nel trasporto pubblico, e per quella della dirigenza, osteggiata fin dall’inizio dagli attuali vertici amministrativi. Ma anche gli altri decreti colpiti dalla sentenza sono destinati almeno per ora a un’esistenza incerta, soggetta ai ricorsi regionali che sono più che probabili alla luce della “vittoria” spuntata dal Veneto giovedì in Consulta.
In ordine di popolarità, il primo provvedimento a rischiare è l’antipasto della riforma del pubblico impiego approvato in via definitiva a metà giugno, e in vigore dal 13 luglio, che prevede sospensione immediata e licenziamento “sprint” per i dipendenti pubblici che vengono colti in flagrante a timbrare il cartellino senza poi andare in ufficio. La nuova regola era destinata ad avere effetti crescenti nel tempo, perché naturalmente non può essere applicata ai casi di assenteismo avvenuti prima della sua entrata in vigore, ma ora i diretti interessati avranno un’arma in più per difendersi. Sarà sufficiente che il tribunale chiami in causa la Consulta, passaggio praticamente scontato vista la “macchia” sull’iter del decreto, per condurre il provvedimento verso lo stop.
Simile la situazione per il decreto sulle partecipate, in vigore dal 23 settembre scorso. Anche in questo caso, per riportare la riforma su un terreno sicuro servirà il decreto correttivo, che dovrà tornare in Conferenza unificata per ottenere l’«intesa» invece del «parere» ricevuto a metà aprile. Nel nuovo passaggio è probabile che le autonomie locali, forti del maggior potere di interdizione offerto dall’esigenza dell’accordo, tornino a chiedere di rivedere al ribasso i criteri che individuano le partecipate da dismettere, a partire dal fatturato minimo da un milione di euro, che nel parere regioni e sindaci avevano chiesto senza successo di abbassare a 500mila euro. Nel frattempo il decreto, anche se azzoppato, resta in vigore, insieme ai termini che impone a governo, enti proprietari e società: il primo, in realtà, entro il 23 ottobre avrebbe dovuto scrivere il decreto con i nuovi tetti per i compensi dei manager, ma il termine è passato senza produrre effetto. Entro fine anno, invece, le società controllate dalla Pa devono adeguare i loro statuti alle previsioni della riforma, in particolare su amministratore unico, cda e deleghe, mentre gli enti proprietari hanno tempo fino al 23 marzo 2017 per scrivere i piani di razionalizzazione. Per quella data, se il cammino della riforma proseguirà, dovrebbero però aver visto la luce i correttivi.
Il terzo intervento in bilico è quello sulla dirigenza sanitaria, nonostante la serrata trattativa che ne ha accompagnato il cammino e che ha portato a «concordare» gli emendamenti con le amministrazioni locali, come si legge nel parere rilasciato il 3 marzo dalla Conferenza unificata. Oltre che lo strumento, cioè appunto il parere invece dell’intesa, secondo la Corte costituzionale era sbagliata anche la sede, perché il decreto sarebbe dovuto passare dalla Conferenza Stato-Regioni e non dall’Unificata (dove siedono anche Comuni, Città metropolitane e Province). Commentando a caldo la sentenza della Consulta il governatore del Veneto Luca Zaia ha parlato di «colpo al centralismo sanitario», a riprova del fatto che anche su quel provvedimento i ricorsi sono più di un rischio.
L’obbligo di intesa, infine, viene fissato anche per la riforma del pubblico impiego: in questo caso però i termini per il primo via libera scadono a febbraio prossimo, e c’è il tempo di percorrere l’iter giusto.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 27 novembre 2016