Slittato in extremis il 10 agosto dopo aver alzato parecchio la temperatura in molti uffici di vertice della pubblica amministrazione, il decreto che attua la riforma Madia nel capitolo dedicato alla dirigenza è atteso in consiglio dei ministri la prossima settimana.
Il governo appare deciso a confermare l’appuntamento, anche perché è l’ultimo utile prima della scadenza della delega e lo stesso presidente del consiglio ha ribadito di non volerne lasciare inattuato alcun aspetto, ma la decisione finale va ancora presa sul punto più in discussione: introdurre o meno nel testo una clausola di salvaguardia che eviti di inserire subito nei meccanismi del «ruolo unico» anche i prossimi incarichi dei direttori generali dei ministeri.
In realtà, questo è solo l’aspetto di punta di una questione più generale sulle regole di transizione dal vecchio al nuovo regime, e per capirlo è sufficiente ricordare i pilastri della riforma disciplinati dalla bozza di decreto. I dirigenti della pubblica amministrazione saranno inseriti in «ruoli unici» dedicati a Stato, regioni ed enti locali, a cui si affianca quello delle autorità indipendenti; da questi ruoli, in cui gli aspiranti dirigenti del futuro entreranno tramite concorso oppure corso-concorso, le amministrazioni dovranno pescare per affidare gli incarichi, tramite selezione pubblica. Gli incarichi, e qui si entra nel terreno più delicato, saranno a tempo, di quattro anni rinnovabili una volta sola nel caso di valutazione positiva ottenuta dall’interessato.
Per chi resta privo d’incarico sono dolori: cadono tutte le voci accessorie della retribuzione, che valgono dal 40 al 70% della busta paga a seconda dei casi, e lo stipendio di base viene tagliato del 10% per ogni anno passato in parcheggio. Nell’ipotesi limite di assenza di incarichi per sei anni, la prospettiva è il licenziamento, previsto anche per chi durante lo stop non partecipa a un numero minimo di selezioni (l’ipotesi è 10 bandi ogni tre mesi): per evitare l’uscita, il diretto interessato potrà rinunciare alle stellette da dirigente ed essere inquadrato come funzionario.
Fin qui i principi base, che si affiancano a meccanismi di taglio (fino all’80%) per la retribuzione di risultato per i dirigenti che si macchiano della colpa di non «vigilare sul rispetto degli standard qualitativi e quantitativi» del lavoro nei propri uffici. Ad agitare gli uffici, però, c’è prima di tutto la sorte degli incarichi attuali, a partire da quelli di direttore generale. Il loro arrivo alla scadenza naturale non è in discussione, anche perché qualsiasi ipotesi contraria (peraltro mai ventilata espressamente) cozzerebbe contro il Codice civile e non resisterebbe a un eventuale ricorso, ma c’è da decidere se e come far transitare anche questi incarichi nel ruolo unico: la clausola di salvaguardia ipotizzata in alcune bozze era a rischio caduta dal testo, e alla fine il governo ha deciso di prendersi altri 15 giorni di tempo per sciogliere il nodo.
Anche se meno dibattuta in pubblico, c’è però un’altra questione almeno altrettanto importante su cui le bozze finora circolate non offrono una risposta definitiva, ed è quella della responsabilità per danno erariale. La delega chiede di separare in modo netto l’«attività gestionale» e le scelte di indirizzo, con l’obiettivo di chiamare i dirigenti a rispondere solo della prima e i politici solo delle seconde: passare dalla teoria alla pratica non è semplice, e dalla collocazione del confine dipenderanno gli spazi d’azione della Corte dei conti.
Insieme al provvedimento sui dirigenti, arriveranno sui tavoli del governo anche i decreti su Camere di commercio ed enti di ricerca.
Il Sole 24 Ore – 19 agosto 2016