Entra nel vivo la partita al Senato sulla riforma della pubblica amministrazione. E già si annuncia non priva di tensione. Dopo un semi-letargo di diversi mesi per la “legge Madia” con tutto il suo carico di deleghe (11) e di proposte di modifica sta per scoccare l’ora delle votazioni in commissione Affari costituzionali. A “scongelare” il provvedimento sarà l’atteso parere della commissione Bilancio che all’inizio della settimana darà il suo verdetto sulla “solidità contabile” degli emendamenti presentati provocando una non trascurabile scrematura. Subito dopo si serreranno i tempi per le votazioni. E a quel punto dovranno anche essere sciolti alcuni dei nodi più spinosi: dalla stretta sulle partecipate in rosso alla sanatoria “salvasindaci” passando al nuovo meccanismo semplificato di valutazione dei dipendenti pubblici con una ricaduta sui tempi relativi all’esercizio dell’azione disciplinare.
La guerra è già iniziata. Prima ancora che questa settimana, al Senato, entri finalmente nel vivo l’esame della delega della Pubblica amministrazione, varata ormai 8 mesi fa dal governo, il tema dei temi, la rimovibilità dei dirigenti pubblici e la loro parziale sostituzione con figure a tempo, esterne, è già sul fuoco. Con tutte le polemiche sullo spoils system strisciante che introdurrebbe. La Corte dei Conti da una parte e il Tar dall’altra sembrano erigere argini robusti che limitano l’effetto combinato del decreto Madia (già convertito in legge) e della riforma in arrivo. Mentre i sindacati annunciano battaglia sul tema della mobilità dei dipendenti.
La norma
La possibilità di affidare incarichi dirigenziali all’esterno risale al 2001 (articolo 19, comma 6 del Dlgs 165). Prevede il limite del 10% della dotazione organica dei dirigenti di prima fascia e dell’8% per quelli di seconda e una durata non inferiore a tre anni né superiore a cinque. I prescelti devono essere «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione», con esperienza almeno quinquennale in funzioni dirigenziali, o con particolare specializzazione da formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate almeno quinquennali. Un censimento completo di quanti siano questi incarichi oggi non esiste.
Le soglie
Il decreto Madia, convertito in legge nell’agosto scorso, apporta una prima modifica: fa salire la soglia al 30% ma solo per gli enti locali, triplicandola. Consente ai sindaci di assumere collaboratori a tempo, retribuendoli come dirigenti, anche senza laurea, che invece serve ai dirigenti interni.
La delega sulla P.a., che sta per essere esaminata, introduce a propria volta, un ruolo unico dei dirigenti da cui questi vengono «pescati» di volta in volta per poter assumere incarichi. In assenza di questi ultimi per più di due anni, il dirigente diventa licenziabile. In una cornice simile, la possibilità, sia pure limitata, di chiamare senza concorso dei dirigenti esterni a tempo, diventa esplosiva e suscita il dubbio che in questo modo si avvii un ricambio della classe dirigente «infedele». Il concorso pubblico con cui si assumono i dirigenti di ruolo è altro dalla «procedura a evidenza pubblica» che viene attivata per quelli a tempo, che si esaurisce in una selezione pubblica per verificare l’esistenza delle competenze specifiche, senza graduatoria finale.
La Scuola
E che dire della parte della delega che riforma la Scuola della Pubblica amministrazione (che oggi sforna il 50% dei dirigenti assunti) trasformandola in un’agenzia e aprendo alle università private? Anche il nuovo meccanismo di reclutamento sembra infliggere una picconata ai tradizionali canali di accesso ai ruoli della dirigenza. Senza parlare dell’altra norma molto discussa che, nell’introdurre la distinzione tra la responsabilità dell’amministratore e quella del dirigente, assegna a quest’ultimo quella dell’«attività gestionale». Una norma interpretata come un alleggerimento della responsabilità dei primi (sindaci e assessori) a scapito dei secondi.
Le sentenze
Ma torniamo al reclutamento esterno e alle sentenze. La prima è della Corte dei Conti del dicembre scorso. Per la prima volta sostituisce la semplice adeguata motivazione necessaria per conferire l’incarico all’esterno con una previa verifica della sussistenza delle risorse umane interne, consentendo la ricerca fuori solo in seguito a esito infruttuoso. Un catenaccio: sarà difficile non trovare tra i tanti dirigenti di seconda fascia chi sia disponibile e abbia le competenze per accedere a un ruolo superiore.
L’altra sentenza è quella del Tar Lazio che ha bocciato le nomine di alcuni dirigenti esterni, precedenti al decreto Madia, perché in sovrannumero rispetto ai criteri di legge e perché non sarebbero state cercate adeguatamente le professionalità interne. Inutile l’appello della Regione ai nuovi, più elevati limiti del decreto Madia.
TRA I NODI DA SCIOGLIERE LA VALUTAZIONE DEI DIPENDENTI E LA RESPONSABILITÀ DEI DIRIGENTI
L’ultimo ingresso, in ordine cronologico, nel pacchetto di emendamenti del relatore Giorgio Pagliari (Pd), è la delega sulla potatura dei decreti attuativi maggiormente “datati” e quindi da considerare «desueti», come ha detto il ministro della Pa, Marianna madia. Un correttivo che ha l’obiettivo di snellire l’attività legata all’attuazione di alcuni provvedimenti ereditati dal Governo riducendo anche i vincoli per lo stesso esecutivo.
Sempre dal relatore erano già stati presentati alcuni correttivi sulle partecipate, a partire da quello sulle 2.380 società in perdita. Facendo leva sulle proposte formulate dall’ex Commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, verrebbe previsto, in caso di disavanzo o dissesto, prima un piano di rientro e, se questo fallisce, anche un eventuale commissariamento. Del pacchetto di ritocchi su questo versante fa parte una possibile stretta sugli affidamenti in house.
Tra i temi caldi c’è anche quello dell’eventuale “sanatoria-salva sindaci”. Tra obiettivi ci sarebbe quello di rafforzare, nell’ambito della riforma della dirigenza, il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, anche attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale.
Una partita nella partita si giocherà sul riordino della disciplina del pubblico impiego anche in seguito al decollo del jobs act per il settore privato. Un riordino previsto da una delle deleghe della riforma, su cui però i sindacati hanno già annunciato di essere pronti a dare battaglia.
IL COMMENTO. IL PERCORSO A OSTACOLI DI UNA RIFORMA NECESSARIA
Sabino Cassese. Il disegno di legge sulla riorganizzazione della Pubblica amministrazione fu presentato al Parlamento il 23 luglio dello scorso anno. Da sette mesi è fermo alla commissione Affari costituzionali del Senato, che deve esaminarlo in sede referente. La Commissione ha dovuto dedicare due mesi all’esame della legge elettorale. Poi, ritornata alla riforma della Pubblica amministrazione, è stata costretta ad attendere i pareri di 14 commissioni, e in particolare quelli della commissione Bilancio, a loro volta condizionati dalle relazioni tecniche della Ragioneria generale dello Stato. Sono piovuti emendamenti e sub-emendamenti. Forse siamo arrivati alla settimana decisiva. E tra quindici giorni il disegno di legge potrebbe passare in Aula per essere discusso e approvato, salvo cominciare lo stesso percorso alla Camera dei deputati. Insomma, sembra un caso di scuola per spiegare gli inconvenienti del parlamentarismo e del bicameralismo. Si è lamentato di questa situazione anche il presidente del Consiglio dei ministri, consapevole che questa è la terza gamba del suo progetto di riforma istituzionale, accanto alle modificazioni costituzionali e alla legge elettorale
C’è una ragione di questo lentissimo procedere? Il disegno di legge è ambizioso. Ma è quello di cui il Paese ha bisogno, considerato che tutti si lamentano delle disfunzioni amministrative. Contiene undici diverse deleghe, di cui alcune multiple. Ma queste erano necessarie perché nessun Parlamento al mondo riuscirebbe a regolare nei particolari il complesso universo amministrativo. Tocca molte materie, dall’organizzazione periferica dello Stato al Corpo forestale, dalle forze di polizia all’attuale dirigenza, dai segretari comunali alle Camere di commercio. Ma anche questo era necessario, perché se tutto resta come è oggi, tutto continua a funzionare male. E allora sarebbe compito del Parlamento procedere speditamente, non farsi frenare dai mille interessi in gioco, non rivendicare le proprie prerogative senza nello stesso tempo far fronte alle proprie responsabilità. È evidente che ogni articolo di un disegno di legge di questa natura ha un nemico pronto a rallentare e a opporsi. Ma il Parlamento non deve solo ascoltare, deve anche convincersi e decidere.
Credo che neppure il governo sia immune da colpe. Avrebbe dovuto e dovrebbe ricordare ogni giorno che questa è una priorità. Che si ha un bel chiedere fisco più giusto, cittadino meglio servito, sanità più funzionante, scuola più moderna, se la macchina del fisco, dei servizi sociali, della sanità, della scuola ha strutture arcaiche, procedure lente, personale mal scelto e poco motivato. Che la Pubblica amministrazione è la più grande azienda del Paese: se essa funziona male, il Paese funziona male.
Infine, Parlamento, governo e la stessa Pubblica amministrazione dovrebbero ricordare — come amava dire Filippo Turati — che le tranvie non stanno lì per dare lavoro ai tranvieri, ma per trasportare la gente. In altre parole, che l’obiettivo da perseguire è di fornire un miglior servizio ai cittadini, non di ascoltare gli interessi degli addetti ai lavori.
Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore – 8 marzo 2015