Giorgio Cavallero, vice coordinatore Cosmed, è un grande esperto di previdenza. Quotidiano Sanità ha chiesto a lui di fare il punto su come cambieranno le pensioni dei medici e dei veterinari che lavorano nel Ssn dopo la manovra di fine anno. Quali le conseguenze sui trattamenti pensionistici per i sanitari e come attrezzarsi per garantirsi una pensione integrativa dignitosa? Cavallero riassume anche le richieste della categoria: rivedere le condizioni di lavoro per la sicurezza delle cure, ripristinare una qualche forma di quota che valorizzi anzianità e contribuzione, consentire il pensionamento anticipato per chi opta per il contributivo puro
E ancora: garantire una rivalutazione annua dei contributi legata all’inflazione o agli interessi pagati dallo Stato sul debito pubblico, eliminare le discriminazioni tra pubblico e privato, consentire ai giovani la ricongiunzione di tutti i contributi versati
Di seguito l’intervista tratta da quotidianosanita.it
Dottor Cavallero, partiamo dalla domanda che tutti i dirigenti del Ssn si stanno facendo. Quando si potrà andare in pensione?
La manovra, di fatto, fissa per tutti sei anni di lavoro in più e sei anni di pensione in meno. Questo vuol dire che se prima si facevano circa 40 anni di lavoro e 20 di pensione, ora saranno rispettivamente 45 e 15, passando dunque da un rapporto 2 a 1 a un rapporto 3 a 1. Per un giovane, che entra a 30 anni dopo la specialità, vuol dire avere la certezza matematica di restare al lavoro fino a 70 anni.
Dunque, concretamente, non ci sarà più la pensione di anzianità?
È così, anche perché i giovani non sono più spinti a riscattare gli anni di laurea, visto che questo ha un costo elevato e che produce anche un altro paradosso: se tu riscatti passi dal contributivo al misto e dunque non puoi più usare la clausola che consente per chi ha il contributivo puro di andare in pensione anticipata a 63 anni.
Alla fine, tutti i medici resteranno in servizio fino a 70 anni?
Sarà così, ed è un problema grave perché il nostro non è un lavoro impiegatizio, è un lavoro che ha turni, reperibilità, sale operatorie. In Europa, dove non esistono le pensioni di anzianità ma è molto agevolato il pensionamento anticipato, dopo i 55 anni non si fanno più le guardie, il part time non è penalizzato, i medici più anziani possono assolvere a funzioni didattiche stabili, per insegnare ai giovani. Da noi tutto questo non c’è e restare al “lavioro forzato” mette a rischio anche la sicurezza delle cure prestate ai cittadini.
Ma i medici vogliono tutti andare in pensione?
La gente va in pensione non perché ne abbia davvero voglia, ma perché non ne può più e non esistono quegli ammortizzatori che nella nostra professione sono indispensabili. Inoltre c’è la paura di cosa succederà in futuro: i dati Inps mostrano come negli ultimi tre anni l’età media di chi è andato in pensione si sia abbassata, come conseguenza a queste continue manovre, che solo nel 2011 hanno cambiato quattro volte le regole in materia di pensioni. Chi ha maturato un’anzianità, va in pensione.
L’allungamento della speranza di vita non rende “inevitabile” un intervento sulla previdenza?
Certo, però ci voleva una gradualità come è stato fatto in tutti i Paesi di Europa e come è stato fatto per i dipendenti privati, che andranno a regime nel 2018. Il problema è che si è voluto fare cassa subito.
Dunque questi interventi daranno almeno benefici ai bilanci statali?
In realtà no, come abbiamo spiegato più volte: tutta l’operazione costituisce un aggravio per le casse dello Stato, visto che si trattengono in servizio persone che hanno molta anzianità, e dunque “costano” di più, a discapito delle assunzioni dei giovani che costano di meno.
Lei ha accennato prima al passaggio al calcolo retributivo, introdotto definitivamente con la manovra. Su questo siete d’accordo?
Certamente il provvedimento del contributivo andava fatto, malgrado sia una misura drastica, ma erano necessarie alcune cautele. Il contributivo ha questo difetto: quando c’è una forte inflazione e non ci sono rivalutazioni adeguate, il risparmio previdenziale diventa penalizzante rispetto ad altre forme di investimento.
Mi spiego: nel contributivo la rendita si rivaluta sulla base degli ultimi 5 anni di Pil, il problema però è che adesso il Pil è negativo. Quindi, mentre lo Stato paga il 7% di interesse sui Bot, sulle pensioni paga molto di meno. Vuol dire “fare la cresta” sui giovani e per questo abbiamo chiesto una norma di garanzia, secondo cui la rivalutazione sia almeno pari a quello che lo Stato paga sul debito pubblico o all’inflazione.
E poi col contributivo si dovrebbe superare il concetto di età pensionabile.
Non è un’utopia il superamento dell’idea di età pensionabile?
Guardi, lo dice anche Fornero: a regime ognuno potrà scegliere quando andare in pensione. D’altra parte col contributivo il calcolo è individuale, personale. Nella sua carriera un medico arriva ad accantonare circa un milione di euro: perché deve essere costretto ad arrivare a 70 anni per poterli utilizzare?
E poi l’aumento dell’età pensionabile nel privato non necessariamente determina disoccupazione giovanile, mentre nel pubblico, e in particolare nella sanità, sì, perché i posti sono contingentati alla disponibilità delle strutture. L’ospedale non è una fabbrica di salumi che può aumentare la produttività. E dunque questo sicuramente aggrava i problemi cronici del precariato.
Che consiglio darebbe ad un medico che comincia oggi a lavorare?
Sarà obbligato a ricorrere alla previdenza integrativa, perche con la previdenza statale non raggiungerà più del 50% dell’ultima retribuzione. Speriamo che dal prossimo anno sia operativo il Fondo Perseo, che sarà la seconda gamba della previdenza, indispensabile per i giovani.
Cos’è il Fondo Perseo?
Un fondo negoziale che consentirà un secondo accantonamento, con il contributo mensile dell’1% del medico, l’1% del datore di lavoro e il 2% della liquidazione. Non è un successo, ma di fronte al venir meno delle garanzia consente direcuperare parte di quello che si è perso.
Pensa che ci siano margini per modifiche positive alle norme introdotte dalla manovra?
Assolutamente sì. Noi abbiamo intenzione di rivolgerci anche alla Corte Costituzionale: non è possibile che un’impiegata di banca vada in pensione a 60 anni e una dottoressa o un’infermiera a 70. È stata fatta una divisione artificiosa secondo cui il pubblico è un lavoro impiegatizio e il privato è un lavoro usurante. Non è così: non tutti i privati sono operai usurati, non tutti i dipendenti pubblici sono impiegati.
Anzi, il turn over andrebbe anzi accelerato in alcuni settori. Avere una popolazione di medici e di insegnanti anziani è un disastro, sia perché lasci nel precariato i giovani sia perché non introduci le nuove tecnologie e le nuove conoscenze.
Di riforma della previdenza se ne parla da dieci anni, ora è stata fatta violentemente. Non c’è una responsabilità dei sindacati in questo ritardo?
Rifiuto questa critica. Il problema è che si è fatta una politica delle pensioni solo sulle uscite e non sulle entrate. Le entrate crescono aumentando i posti di lavoro, facendo crescere le aliquote troppo basse e facendo emergere l’evasione fiscale e contributiva.
Il problema non sono le ricche pensioni, visto che le pensioni in Italia sono tra le più basse d’Europa. Il deficit previdenziale è tutto sul fronte delle entrate: c’è un’evasione fiscale pazzesca, che si trascina dietro un’enorme evasione contributiva. Non solo, ma ci sono categorie che pagano l’8%, come i parlamentari, mentre i lavoratori dipendenti pagano il 33%. Tagliare all’osso le pensioni di tre milioni di dipendenti pubblici non può bastare a riequilibrare un sistema con 5 milioni di lavoratori autonomi e 21 milioni di dipendenti privati.
Con i lavori forzati non si risolvono i problemi. Le pensioni in Italia sono state usate come un ammortizzatore sociale, in mancanza d’altro, basti pensare ai prepensionamenti nell’industria. Così come la sanità si fa carico spesso di problemi sociali, la previdenza svolge un ruolo improprio di assistenza, a partire dalla cassa integrazione.
Può riassumere le vostre richieste in materia di pensioni?
Sei punti, più uno: rivedere le condizioni di lavoro per la sicurezza delle cure, ripristinare una qualche forma di quota che valorizzi anzianità e contribuzione, consentire il pensionamento anticipato per chi opta per il contributivo puro, garantire una rivalutazione annua dei contributi legata all’inflazione o agli interessi pagati dallo Stato sul debito pubblico, eliminare le discriminazioni tra pubblico e privato, consentire ai giovani la ricongiunzione di tutti i contributi versati. E poi, favorire la previdenza integrativa.
Eva Antoniotti – quotidianosanita.it – 30 dicembre 2011