Meno stipendio fisso e più premi, naturalmente misurati sulla base dei risultati. Accanto a ruoli unici e incarichi a tempo, che hanno monopolizzato il dibattito estivo sul tema, la riforma dei dirigenti approvata il 25 agosto in prima lettura e ora in attesa dei pareri (non vincolanti) di conferenza unificata, consiglio di Stato e parlamento lancia un nuovo tentativo di rivoluzionare la busta paga dei dirigenti: una “rivoluzione”, va detto, che se sarà portata avanti davvero promette di congelare per molti anni le parti fisse dello stipendio.
Il punto chiave si incontra all’articolo 8, comma 2 del decreto, che fissa due principi: le voci variabili devono rappresentare almeno la metà dello stipendio complessivo, al netto di anzianità ed eventuali incarichi aggiuntivi, e il 30% va collegato ai «risultati». Nel caso dei dirigenti generali, cioè quelli che si trovano nelle caselle più alte della gerarchia pubblica, la quota variabile deve salire fino al 60% del totale, e quella legata ai risultati non può fermarsi sotto il 40 per cento. Fino a quando non si raggiungeranno questi parametri, i contratti collettivi «non possono destinare risorse alla parte fondamentale né all’indennità di posizione».
Agli addetti ai lavori questi principi non suoneranno nuovissimi. Sono presi di peso, infatti, dall’articolo 45 della riforma Brunetta, che nel 2009 provò a imboccare la stessa strada ma venne subito stoppata dal congelamento dei contratti avviato l’anno dopo.
Ora però il blocco dei contratti è finito in un cassetto da cui non dovrebbe più uscire, la stessa strategia che il governo ha intenzione di proporre ai sindacati prova a spingere sulle parti variabili anche per il grosso del personale pubblico, e sulla carta non ci sono ostacoli ad avviare il cambio di rotta. La strada, però, si annuncia lunga, e per capirlo basta dare un’occhiata alla geografia delle retribuzioni attuali dei dirigenti.
Oggi la «retribuzione di risultato» pesa in media intorno al 10% dello stipendio complessivo dei dirigenti. Per raggiungere l’obiettivo fissato dalla riforma, quindi, andrebbe triplicato, ma non è ovviamente possibile ipotizzare né un rigonfiamento generalizzato degli stipendi dirigenziali né, al contrario, un rinnovo contrattuale che tagli in modo drastico le quote fisse per spostarle sulla parte premiale. Lo stesso decreto, del resto, impone ai futuri contratti di garantire ai dirigenti attuali il trattamento fondamentale già maturato.
Il quadro, come sempre, è molto variegato: le performance individuali pesano di più nelle agenzie fiscali, si alleggeriscono nei ministeri (dove curiosamente sono in proporzione più consistenti per i dirigenti di seconda fascia e meno per quelli di prima, più in alto nell’organigramma) e finiscono per assottigliarsi fra segretari comunali ed enti di ricerca fino a scomparire nelle autorità indipendenti (anche per ragioni di definizioni). Gli unici perfettamente “in regola” con i nuovi parametri, allo stato attuale, appaiono i dirigenti di seconda fascia degli enti pubblici non economici come Inps, Inail, Aci e così via: i loro stipendi, in media superiori a 132mila euro lordi all’anno secondo i censimenti dell’Aran (l’agenzia che cura i contratti del pubblico impiego), non conoscono rivali negli altri settori della pubblica amministrazione, ma la quota etichettata come «variabile» sfiora il 65% del totale e quella legata ai «risultati» arriva al 33,3 per cento.
Anche le differenze fra i mattoni fissi della retribuzione, nelle intenzioni della riforma, dovrebbero progressivamente sparire, per assicurare ai dirigenti dei ruoli unici la stessa base di partenza.
Da lì, spiega il decreto, dovrebbero arrivare risparmi da girare al trattamento economico individuale legato all’incarico, anche se da non è facile prevedere i risultati effettivi di questa armonizzazione: per i settori oggi rappresentati da livelli retributivi più bassi, come regioni ed enti locali, potrebbe essere una buona notizia, ma nell’ottica del governo questa ristrutturazione delle buste paga, pensata per facilitare la mobilità dei dirigenti, deve appunto produrre «economie» da destinare al rafforzamento delle quote di retribuzione legate agli incarichi. Un altro bel rebus, destinato a far discutere governo, parlamento e sindacati.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 19 settembre 2016