Tra le epatiti virali è quella di più recente scoperta, oltre che la meno conosciuta: per via di una diffusione sporadica nei Paesi industrializzati. Così, almeno, è stato finora. Ma l’ultimo rapporto stilato dal Dipartimento inglese per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali ha portato in copertina l’epatite E, da cui ogni anno risultano affette venti milioni di nuove persone nel mondo: per lo più in India, Asia, Africa, Medio Oriente e America centrale, con la fascia di età compresa tra i venti e i quarant’anni che risulta la più esposta. Sebbene in Gran Bretagna l’infezione da campylobacter resti la più frequente, tra le malattie a trasmissione alimentare, a destare maggiore curiosità è il rapido incremento dei casi di contagio da virus Hev.
ZOONOSI – Diffuso principalmente attraverso il consumo di acqua contaminata dalle feci, il virus dell’epatite E, a differenza degli agenti infettivi della stessa famiglia, è l’unico che ha dimostrato di poter essere trasmesso a partire dagli animali: suini in primis, ma anche polli e tacchini. È per questo che, in ambito scientifico, si parla di una zoonosi, diffusa soprattutto per via diretta nelle categorie a contatto con gli animali: al punto da non poter escludere che, in futuro, possa essere inquadrata come malattia professionale. Il virus, riscontrabile in quattro diversi genotipi, si manifesta raramente come un’infezione acuta fulminante (nelle aree endemiche) e nella maggior parte dei casi come infezione subclinica, se il contagio avviene attraverso gli animali. In quest’ultimo caso il genotipo 3 è il più diffuso. «L’epatite E è spesso asintomatica – afferma Roberto Cauda, ordinario di malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma -. Il quadro clinico si caratterizza per la perdita dell’appetito, la stanchezza, la produzione di urine scure e feci chiare, la febbre e l’ittero cutaneo».
DAI MAIALI ALL’UOMO – I casi di epatite E nel Regno Unito, come testimonia la relazione, risultano in ascesa: del 39,5% tra il 2011 e il 2012, anno a cui si riferiscono gli ultimi dati disponibili. A differenza del passato, nel 2012 sono aumentati i casi autoctoni (da genotipo 3), sviluppati in persone che non avevano frequentato aree ad alto rischio. Ben 409 persone, in prevalenza donne, hanno infatti scoperto di essere affette dall’epatite virale, senza essersi allontanati troppo dall’Inghilterra e dal Galles. Ovvero: il 70% dei nuovi malati, rispetto a un media del 45,3% rimasta costante tra il 2003 e il 2012. Una spiegazione certa del trend di crescita non c’è, ma non avendo riscontrato contaminazione delle acque i sospetti sono concentrati sui suini.
L’EPATITE E IN ITALIA – Il nostro Paese può essere considerato a basso rischio: «Nel periodo 2007-2010 sono stati notificati sessanta casi, il 58% dei quali di importazione – spiega Anna Rita Ciccaglione, direttore del reparto epatiti virali dell’Istituto Superiore di Sanità -. Ma è un dato sottostimato, a causa del carattere spesso subclinico dell’infezione. Quanto ai casi autoctoni dovuti al genotipo 3, non è possibile definire l’esatta proporzione a livello nazionale, poiché la definizione del genotipo virale non rientra nell’attuale procedura del sistema di sorveglianza». L’epatite E, che di norma guarisce in un paio di settimane, è particolarmente pericolosa se contratta nel terzo trimestre di gestazione. «In questo particolare periodo della vita si possono verificare episodi di epatite fulminante e complicazioni ostetriche, se l’infezione è sostenuta dai genotipi virali 1 e 2 che circolano in Asia, Africa e America centrale. Non è stato finora riportato un aumento del tasso di mortalità tra le donne in gravidanza affette da virus di genotipo 3».
SALSICCIA CONTAMINATA – A parziale conferma dell’ipotesi riguardante l’origine animale del virus, c’è un lavoro inglese pubblicato l’anno scorso su Emerging Infectious Diseases, secondo cui il 10% della carne suina analizzata – campionata lungo le varie fasi della lavorazione: nel macello, negli stabilimenti di trasformazione e nei punti vendita al dettaglio – è risultata contaminata dal virus dell’Hev. «Stiamo assistendo al passaggio da un’ipotesi di lavoro, la trasmissione della malattia attraverso gli alimenti, all’accettazione ufficiale come realtà comprovata su cui occorrerà intervenire – precisa Luca Bucchini, esperto in sicurezza alimentare, attraverso Prometeus, il magazine dell’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani -. Per prevenire il contagio è importante cuocere bene la carne, portandola a una temperatura al cuore di almeno 71 gradi: da controllare con un termometro casalingo che verifichi l’esatto grado di calore raggiunto».
27 settembre 2013 – Il Corriere della Sera