Emiliano Sgambato, Il Sole 24 Ore. Valori in calo. Le quotazioni medie dei suini sono in calo del 6,2% a settembre. Una situazione che si aggiunge all’aumento dei costi dei mangimi e per la gestione degli allevamenti
«La marginalità ormai non esiste più, non posso neanche dire che è ridotta a zero, perché in questo momento stiamo vendendo la nostra carne in perdita, a causa delle quotazioni in calo e dell’aumento dei costi, sia delle materie prime che di quelli energetici». È la testimonianza di Giovanna Parmigiani, membro della giunta nazionale di Confagricoltura e allevatrice di suini. «Siamo una realtà piccola – racconta – che però copre tutto il ciclo dell’allevamento grazie a circa 300 riproduttori e 5 o 6mila suinetti l’anno». Un report sul comparto suinicolo che pubblicato ieri da Ismea conferma il quadro negativo: dopo «un accenno di ripresa» nei primi mesi dell’anno, seguito a un 2020 particolarmente critico, «le quotazioni medie dei suini sono in calo del 6,2% a settembre». Gli allevamenti suinicoli hanno generato un valore di circa 3 miliardi nel 2019 (Fonte: Istat) che sono diventati 2,8 miliardi nel 2020. Il fatturato dell’industria dei salumi è stato pari a 8,1 miliardi nel 2019; 7,9 nel 2020 (Fonte: Federalimentare).
Una situazione influenzata dallo scenario internazionale, che da un lato registra l’aumento dei costi dei mangimi, dall’altro sconta un’offerta abbondante e il rallentamento della domanda da parte della Cina, principale mercato mondiale: «La buona disponibilità di prodotto cinese, dovuta sia a un aumento della produzione nazionale sia a un elevato livello degli stock di carni congelate potrebbe determinare un ulteriore rallentamento delle importazioni», che causerebbe secondo Ismea «una ulteriore pressione al ribasso dei prezzi della carne suina». E questo nonostante l’export Ue dovrebbe segnare «un +6% a fine 2021» grazie agli sbocchi in Asia e Usa. «L’aspettativa era che la domanda da parte della Cina, dopo i problemi sanitari con la peste suina che avevano registrato per la produzione interna, rimanesse alta. Così molti allevatori europei lo scorso anno hanno deciso di aumentare la produzione. Invece in Cina sono stati capaci di rinnovare il parco zootecnico molto velocemente. Il risultato – spiega Parmigiani – è che ora c’è un’eccedenza di carne e le quotazioni calano. Inoltre il prezzo del mais e della soia sono saliti del 60% in un anno, e per un allevamento i mangimi incidono per il 50% dei costi».
A questo si devono aggiungere i rincari energetici che stanno colpendo tutti. «Ci rendiamo conto – continua Parmigiani – che alzare i prezzi al consumatore determinerebbe una spinta inflazionistica, ma è difficile vedere una via d’uscita: o si trovano nuovi sbocchi per l’export a livello internazionale o bisogna sperare che si fermi l’aumento del costo delle materie prime, ma non credo purtroppo che questo succederà».
La maggior parte della carne suina è destinata alla produzione di salumi, i cui produttori importano circa il 40% del fabbisogno. «Nei primi 8 mesi del 2021 – riporta Ismea – in Italia sono stati macellati complessivamente 7,5 milioni di capi (di cui circa i tre quarti all’interno del circuito Dop), facendo registrare un incremento produttivo dell’1,6% rispetto allo scorso anno (+1,3% per i Dop)». Le quotazioni dei tagli più pregiati, e in particolare delle cosce per la produzione dei prosciutti, sono aumentate a doppia cifra nei primi dieci mesi dell’anno. Ossigeno al settore potrebbe quindi arrivare dalle produzioni a denominazione d’origine o comunque dai salumi con carne 100% italiana, sempre più richiesti dai consumatori (vedi articolo in pagina).
«Le Dop sono una risorsa, ma il problema è che la discesa dei prezzi pagati per le altre parti degli animali non compensano le quotazioni dei tagli pregiati», dice Parmigiani. Che lamenta anche come alcune modifiche che stanno interessando i disciplinari dei prodotti Dop impongano regole sempre più stringenti in termini di genetica, alimentazione e peso dei maiali, e anche di burocrazia, rischiando di mettere in difficoltà gli allevatori. «C’è bisogno di rafforzare i legami di filiera, di collaborare di più – aggiunge Parmigiani –. Una maggiore progettualità potrebbe aiutare tutto il comparto».
In prospettiva inoltre il settore dovrà fare i conti – è l’analisi Ismea – con «un atteggiamento sempre più diffidente da parte della società nei confronti dei consumi di carne e sulle modalità di gestione degli allevamenti». «Abbiamo fatto moltissimo per ridurre l’inquinamento e aumentare il benessere animale, ma purtroppo in tv fanno notizia solo alcune mele marce che non rispettano le regole – commenta Parmigiani –. Molto si può ancora fare ma va anche ricordato che il settore agricolo incide per il 7% a livello di gas serra e che in 20 anni abbiamo diminuito le emissioni di CO2 del 30 per cento».