Alessandro Barbera. Ormai da tre giorni Matteo Renzi ripete ossessivamente la stessa frase: «La manovra non cambia». Poiché il testo della legge di bilancio per il 2017 non è ancora disponibile, può ripeterlo senza rischio di smentita. Niccolò Machiavelli diceva che il buon politico deve avere l’abilità di simulare e dissimulare.
L’ultima dichiarazione pubblica del premier aggiunge un dettaglio decisivo e conferma che la lezione del conterraneo fiorentino è sempre attuale: «La manovra non cambia…per i cittadini». Lo scambio di lettere fra il governo e la Commissione Ue è solo la punta visibile di una trattativa difficile, a tratti aspra, ma mai interrotta. Sotto il pelo dell’acqua il testo sta cambiando eccome.
Prendiamo il decreto fiscale pubblicato ieri in Gazzetta ufficiale. La sua prima stesura prevedeva una sanatoria sui contanti con l’aliquota secca al 35 per cento. Renzi ha fatto sapere di aver deciso in piena solitudine, dopo aver valutato pro e contro del provvedimento. Eppure è noto che per la Commissione si trattava di una pessima idea, e non solo perché avrebbe potuto permettere la regolarizzazione di capitali sospetti. Si trattava di una delle molte una tantum che rendono incerte le entrate di una manovra che spinge il deficit poco sopra il limite considerato invalicabile. In quel decreto sono viceversa spuntate coperture piuttosto certe: 417 milioni di tagli lineari alle spese correnti di tutti i ministeri, in gran parte a carico di Tesoro e Infrastrutture.
Al di là di quello 0,1 per cento in più di deficit rispetto a quanto concordato, l’obiezione principale della Commissione ha a che fare proprio con la qualità delle coperture necessarie a finanziare ciò che della manovra non è disavanzo. Il governo chiede di farlo per dodici miliardi, gli altri quindici sarebbero reperiti fra tagli alla spesa e nuove entrate. Ma circa la metà di queste sono voci per l’appunto una tantum: spese certe per entrate incerte. Un’equazione che Bruxelles non ha mai accettato. Ai tempi di Berlusconi e Tremonti una delle voci preferite per far tornare i conti era “proventi da lotta all’evasione”. Sulla carta si poteva scrivere qualunque cifra, altro era trasformare quelle promesse in impegni concreti. Nel frattempo le regole contabili europee si sono affinate, ed è sempre più difficile per la Commissione accettare cifre aleatorie.
È su questo che si stanno concentrando le trattative fra il ministro Padoan e i due vigili europei dei conti pubblici, il commissario francese agli Affari monetari Moscovici e il vicepresidente lettone Dombrovskis. Fonti di governo raccontano che nelle ultime ore il pressing di Bruxelles serve a convincere il governo ad aumentare il valore complessivo dei tagli alla spesa, o quantomeno delle entrate certe. È per questo che il testo definitivo del disegno di legge, già in ritardo di quattro giorni, ancora ieri veniva definito in alto mare. In Commissione Bilancio sono convinti che non sarà depositato prima di mercoledì. Del resto non è detto che il governo ceda subito alle richieste europee, anzi. «Il tempo per le correzioni c’è fino all’ultimo giorno del percorso di approvazione parlamentare», dice una fonte del Tesoro. Come era prevedibile, e come racconta la storia delle due ultime leggi di bilancio, il tiro alla fune fra governo e Commissione durerà almeno fino al 4 dicembre, giorno del referendum costituzionale. Da quel momento la corda si allungherà su uno dei confini: su quello italiano in caso di vittoria del sì, su quello della Commissione se prevarrà il no. Nella scommessa elettorale di un Renzi sempre più antieuropeo c’è anche questo: dare ai cittadini la sensazione di votare non solo per il sì alla riforma e alla sua permanenza a Palazzo Chigi, ma anche per ottenere un’Europa più docile agli interessi nazionali. L’incertezza della Commissione Juncker – che ieri sera non aveva ancora spedito la lettera di richiamo all’Italia – è tutta politica: qualunque forzatura è solo benzina per la campagna renziana.
La Stampa – 25 ottobre 2016