Dai contratti a termine più flessibili all’abolizione di Cnel e Covip: la nuova strategia del premier è il contatto diretto con i lavoratori. «Sapete perché ci criticano? Perché gli stiamo levando il potere. Sono critiche pretestuose. La verità è un’altra: stiamo rivoluzionando il Paese e c’è chi resiste. E stiamo obbligando anche il sindacato a cambiare».
Matteo Renzi riflette così con i suoi più stretti collaboratori. La settimana si è chiusa con il patto di maggioranza sui contratti a termine e con l’avvio della riforma della pubblica amministrazione. In entrambi i casi i sindacati non hanno toccato palla. Sconfitti, o al massimo spettatori. Vanno all’attacco del governo – con l’eccezione della Uil – ma non osano nemmeno pronunciare le vecchie parole d’ordine, mobilitazione o addirittura sciopero di cui in altri tempi avrebbero già abusato. La tattica va aggiornata, questa volta.
Perché si sta aprendo una fase nuova nei rapporti tra il governo e le parti sociali. E ci sono scelte che spiegano con plasticità quel che sta accadendo. La prossima settimana il presidente del Consiglio, che è anche il segretario del Pd, non andrà a Rimini al congresso della Cgil («mancanza di rispetto», ha avvertito la leader sindacale Susanna Camusso che ancora attende una risposta formale all’invito), ma non ci sarà nemmeno il 29 maggio all’assemblea generale degli industriali ad ascoltare in platea la relazione del presidente Giorgio Squinzi che in molti descrivono irritato con il premier più per ragioni di metodo, evidentemente, che di merito, dati i provvedimenti che finora sono stati presi. Par condicio, in ogni caso. Ma certo è facile ricordare che Romano Prodi andò a Rimini nel 2006 da candidato presidente del Consiglio a ricercare il consenso (e alla fine arrivò pure la standing ovation) dei delegati sindacali, e Silvio Berlusconi non ha mai perso l’occasione per ricevere l’applauso nelle assemblee confindustriali. Matteo Renzi sceglie, simbolicamente, di restare a Palazzo Chigi. E fa di più. Dà 80 euro al mese ai lavoratori dipendenti fino a 26 mila euro di reddito annuo, cioè la fascia in cui si addensa la maggior parte degli iscritti ai sindacati. Scrive direttamente ai dipendenti pubblici, cioè alla roccaforte dei tesserati alle tre centrali sindacali, per consultarli sulla riforma della macchina burocratica. Liberalizza i contratti a termine che riguardano soprattutto i giovani lavoratori precari, mondo nel quale la presenza dei sindacati, per ovvie ragioni, è pressoché irrilevante. Propone di tagliare del 50 per cento i distacchi sindaze cali nel pubblico impiego che oggi, insieme ai permessi, rappresentano una spesa di oltre 114 mila euro l’anno. Avvia, infine, senza alcun confronto preventivo con Confindustria e soci, l’Irap, proprio la tassa più odiata dagli imprenditori, simbolo delle aziende tartassate dal Fisco. Una rottamazione, allora, di sindacati e Confindustria? Del loro ruolo nella politica economica e sociale?
Questa, di certo, è una lotta di potere del tutto inedita. Al pari della sfida che Renzi ha lanciato ai superburocrati dell’amministrazione, compresi i funzionari del Servizio Bilancio del Senato. Quelli che due giorni fa hanno avanzato dubbi sulla copertura del provvedimento sul bonus fiscale e pure perplessità sulla sua costituzionalità. Si sfoga Renzi con i suoi fedelissimi: «Non esiste l’accusa di incostituzionalità. E anche sulle coperture sostengono cose incredibili. Ma, guarda caso, queste critiche arrivano dai tecnici del Senato. Hanno capito che è cambiato il vento, che anche loro rischiano tagli alle retribuzioni… ». Lo schema è sempre lo stesso: cambiamento versus conservazione. Ancora Renzi: «Mi dicono che sul decreto lavoro non abbiamo fatto cose di sinistra. Forse è di sinistra conservare tutto e bloccare tutto?». Ha scritto molti anni fa il sociologo Frank Tanla nenbaum che «il sindacalismo è il movimento conservatore del nostro tempo. È una controrivoluzione ». Le cose non sembrano essere cambiate. Renzi è convinto che questa sia oggi la percezione dell’opinione pubblica. È convinto che senza un cambiamento il sindacato si condanni al declino. Cita spesso il caso del Cnel (destinato ad essere soppresso con la riforma costituzionale) che nei decenni è stato soprattutto un luogo dove piazzare sindacalisti al termine della propria carriera. Citava, ieri, le resistenze in particolare della Cisl di mantenere in vita la Covip (la Commissione di controllo sui fondi pensione) anziché trasferire le sue competen- (come prevedono le linee di riforma della pubblica amministrazione) alla Banca d’Italia che ha già assorbito le funzioni di controllo e vigilanza sulle assicurazioni. E ricordava che il presidente della Covip è l’ex sindacalista cislino Rino Tarelli potentissimo leader per quasi quindici anni della federazione degli statali. Intrecci di potere. Che la fine della concertazione non ha affatto districato.
Eppure, dietro le quinte, si tentano nuove strade, quasi una “terza via” dopo la concertazione triangolare degli anni Novanta e i successivi patti separati con i governi di centrodestra. Senza alcuna istituzionalizzazione i tecnici, ma non solo, dei sindacati provano a realizzare un confronto su temi specifici: è andata così sul decreto Irpef che, infatti, i sindacati non hanno contestato, ma anche sul Jobs Act la cui impostazione Cgil, Cisl e Uil sembrano condividere. Ma su una cosa Renzi non ha alcuna intenzione di cedere: quella di incassare il dividendo delle scelte che fa, cosa che nel passato la sinistra non ha saputo fare. Non lo fece con l’ingresso nell’euro, grazie anche alla concertazione; non lo fece con il taglio dell’Irap di circa 7 miliardi del governo Prodi. Renzi non vuole ripetere quegli errori.
Repubblica – 4 maggio 2014