Regioni in campo sul personale sanitario. Con sette punti all’ordine del giorno di una riunione del Gruppo tecnico interregionale “Risorse umane, Formazione e Fabbisogni formativi” prevista per oggi che non affronterà solo il fabbisogno per il prossimo anno accademico in base al lavoro svolto da ministero della Salute e professioni, ma affronterà anche la questione delle attività delle professioni sanitarie, degli standard del personale, la revisione dei regolamenti sull’accesso del personale al Ssn e le modalità di riduzione dei fondo contrattuali per il 2016 come previsto dalla legge di bilancio dello scorso anno.
Per quanto la riduzione del fondo contrattuale, la legge di bilancio 2016 stabilisce che dal 1° gennaio 2016 le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche non superino l’importo corrispondente per il 2015 ed siano comunque automaticamente ridotte proporzionalmente alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto di quello che le norme attuali consentono di assumere.
In sostanza la norma replica quella del decreto legge 78/2010 e cioè il blocco delle risorse destinate al trattamento accessorio complessivo dei dipendenti pubblici, e la loro riduzione proporzionale alla riduzione del personale in servizio. Le Regioni devono capire/decidere quindi se la riduzione riguardi i fondi contrattuali per intero o, come sostengono i sindacati, medici, le sole voci riconducibili al trattamento accessorio.
Secondo le Regioni i criteri sono proprio quelli già previsti per il Dl del 2010 – da trasferire ovviamente al 2015 – e quindi si dovrebbero calcolare le decurtazioni conseguenti alla riduzione del personale con il confronto tra la semisomma dei presenti, rispettivamente al 1° dicembre e al 31 dicembre dell’anno di determinazione dei fondi e la semisomma dei presenti, sempre al 1° dicembre e al 31 dicembre, del 2010. La variazione percentuale tra le due consistenze medie di personale determinava la misura della eventuale riduzione da operare sui fondi. Il Fondo così determinato era provvisorio e andava rideterminato l’anno successivo alla luce del personale effettivamente in servizio al 31 dicembre dell’anno precedente, e, quindi, le aziende dovevano tener conto del personale “assumibile”, oltre che del personale che sarebbe cessato.
Le Regioni tuttavia ricordano anche che la Corte dei Conti Lombardia nel 2016 ha affermato che non vi sarebbe alcuna necessità di compiere una rettifica a fine esercizio per adeguare il fondo alle assunzioni effettivamente intervenute. In questo caso andrà tenuto conto che: il personale assumibile non può essere quello che fa genericamente capo alle capacità assunzionali a disposizione dell’amministrazione; questo personale non può che essere quello previsto nella programmazione triennale del fabbisogno del personale; per evitare azioni elusive, il personale assumibile deve essere inserito nella programmazione adottata nel rispetto di tutte le regole e l’ente deve stanziare in bilancio le somme finalizzate all’assunzione; il fatto che un soggetto, poi, non sia stato assunto entro l’anno, dovrà dipendere da elementi oggettivi e non certo da inerzia creata per considerare comunque presente il lavoratore al 31 dicembre per il calcolo della semisomma.
Tuttavia, notano le Regioni riferendosi alle ultime modifiche del Dlgs 165/2001, all’atto dell’entrata in vigore del decreto legislativo, le aziende dovranno rideterminare i fondi nella misura del 2016 (e quindi con le decurtazioni relative a quell’anno) senza più tener conto delle variazioni di personale intervenute rispetto al 2015. Si tratta di un sistema, commentano gli assessori, più penalizzante nei confronti degli enti che nel 2017 e seguenti avranno incrementi di personale (sempre in base alla semisomma di cui sopra) rispetto al 2016.
Altro argomento caldo tra quelli sul tavolo, le attività delle professioni sanitarie e gli standard di personale.
Per il primo aspetto, le Regioni sottolineano che lo schema di accordo proposto ha quale presupposto il precedente accordo Stato/Regioni del 7 febbraio 2013, che aveva la necessità di effettuare una ricognizione delle attività riservate per legge alle professioni sanitarie regolamentate “visto quanto stabilito dalla L. 14 gennaio 2013, n. 4 “Disposizioni in materia di professioni non organizzate”.
Il testo proposto si limita, secondo le Regioni, a riprodurre quanto già disciplinato in materia di professioni sanitarie dalla legge 43/2006. Ma d’altra parte una ricognizione e declinazione delle singole attività, come previsto dall’accordo del 2013 comporterebbe il rischio di un ritorno al “mansionario” che descriveva minuziosamente i singoli atti permessi (e solo quelli) alle diverse figure sanitarie, negando quindi un’autonomia professionale e un ambito di intervento non strettamente delimitato, oggi invece entrambi riconosciuti.
Volendo comunque giungere all’intesa sullo schema di accordo presentato, secondo le Regioni va valutata l’opportunità di integrare il testo con il richiamo anche alla legge 251/2000 “laddove viene specificato che lo Stato e le Regioni promuovono la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni sanitarie attraverso una ridefinizione degli ambiti di prevenzione, cura, assistenza e riabilitazione, e rinviando a successivi accordi Stato/Regioni la definizione di funzioni, obiettivi e competenze, mediante ulteriori percorsi formativi, necessari per rispondere all’evoluzione dei bisogni di salute della popolazione”.
In questo modo verrebbe ribadita la possibilità di rivedere l’ambito delle competenze delle professioni sanitarie, prevedendo l’istituzione di ulteriori percorsi formativi che potrebbero svolgersi anche a livello regionale.
Per quanto riguarda gli standard di personale, le Regioni devono farsi carico del rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea in materia di articolazione dell’orario di lavoro ed è stata chiesto loro di determinare anche il fabbisogno di personale collegato alla riorganizzazione delle rete ospedaliera e di emergenza urgenza.
Secondo le Regioni però, il fabbisogno generato dalle necessità di rispetto della normativa sull’orario di lavoro non è sovrapponibile con quello delle necessità derivanti dalla riorganizzazione della rete e della conseguente corretta dotazione delle strutture con il personale necessario al loro corretto funzionamento.
A livello ministeriale, al Tavolo per il Monitoraggio dell’Attuazione del D.M. 70/2015, si sta cercando di sviluppare una metodologia per la valutazione dei fabbisogni di personale. In fase di verifica di applicabilità della metodologia, si sono manifestate criticità di metodo e di calcolo, che le Regioni hanno rilevato. Il metodo proposto si basa per lo più su indici di attività, determinando quindi il fabbisogno di personale in relazione alla produzione erogata. La Regione Veneto ha in particolare sostenuto la necessità di “ribaltare” il metodo di determinazione del fabbisogno individuando parametri organizzativi minimi, nel rispetto degli obiettivi di programmazione regionale e del ruolo delle diverse strutture nel contesto.
Lo scenario organizzativo/assistenziale è in continua evoluzione: la definizione delle dotazioni di personale necessarie a garantire adeguati e appropriati livelli assistenziali secondo standard qualitativi definiti, rappresenta uno degli elementi strategici della programmazione sociosanitaria. E’ complesso quindi, seco ndo le Regioni, definire standard nazionali rispetto a modelli organizzativi regionali ancora molto differenziati.
Per la revisione dei regolamenti di accesso del personale al Ssn, le Regioni ritengono invece costituire un gruppo tecnico per discutere le modifiche ai regolamenti nazionali che disciplinano le procedure concorsuali per il personale del Ssn alla luce delle numerose modifiche normative intervenute successivamente alla loro adozione. Parallelamente andrebbero rivisti anche il DM 30/01/1998 relativo alle discipline per l’accesso al Ssn.
Più lineari gli altri punti in discussione.
Le Regioni sono impegnate a consegnare alla Salute il fabbisogno relativo alle specializzazioni mediche su cui la Salute non ha inviato dati. E per le professioni sono in attesa della bozza di accordo Stato-Regioni per il 2017-2020.
Sull’infermiere pediatrico le Regioni dovranno verificare se la figura sia effettivamente necessaria e se in prospettiva tale figura possa essere sostituita, gradualmente dall’infermiere, mentre per la costituzione delle figure dell’autista soccorritore chiesta dal ministero alcune Regioni e Province (Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Toscana e Bolzano) ritenevano più utile istituire il profilo di “soccorritore” piuttosto che di “autista soccorritore”, ritenendo che la proposta ministeriale non aggiungeva nulla al sistema dell’emergenza-urgenza rispetto alla situazione attuale.
Infine l’educatore professionale. A fine 2016 sono stati esaminati i dati forniti dalle Regioni sui titoli di cui sono in possesso i dipendenti del S.S.R. inquadrati come educatori professionali ed è emerso che rispetto al dato complessivo circa il 21% degli operatori non è in possesso del titolo idoneo. Considerato quindi l’elevata numerosità di chi ha un titolo improprio, le Regioni hanno ritenuto non opportuna l’emanazione degli avvisi pubblici per il procedimento di riconoscimento dell’equivalenza dei titoli del pregresso ordinamento alle odierne lauree, considerato che la maggior parte dei titoli se presentati all’istruttoria verrebbero dichiarati inammissibili, e ciò potrebbe mettere in crisi il sistema e hanno chiesto la predisposizione di una norma legislativa nazionale per sanare la situazione
Quotidiano sanità – 11 aprile 2017