Ci sono sempre più pensioni dei redditi Irpef degli italiani. Il dato emerge chiaro dalle tabelle delle dichiarazioni al fisco dello scorso anno, pubblicate mercoledì dal dipartimento Finanze, e offre numeri importanti per spiegare come gli anni della crisi hanno cambiato la composizione dei redditi. Bastano quattro cifre a capire: fra 2006 e 2016, l’anno fotografato dalle ultime dichiarazioni appena pubblicate, i redditi da pensione sono aumentati del 25,6%, e dal momento che la platea è leggermente diminuita il pro-capite fa segnare un +31,6 per cento. Decisamente più rallentato il ritmo dei redditi da lavoro dipendente nello stesso periodo: +15,1% in un valore assoluto che però è distribuito fra più persone, per cui l’aumento nominale pro capite nei dieci anni si ferma a +8,1 per cento. Un altro numero serve a completare il quadro: l’inflazione generale del periodo, spiega l’Istat, è stata dell’11,49%: il reddito medio dichiarato da lavoro dipendente si è fermato sotto, quello da pensione si è sviluppato invece a ritmi quasi tripli.
Attenzione. Il dato fotografa la composizione complessiva dei redditi mostrati dagli italiani al fisco e non l’andamento dei singoli stipendi o assegni previdenziali. Il messaggio però è chiaro: gli anni della crisi e quelli immediatamente successivi (nel 2016 il Pil ha segnato una mini-ripresa dello 0,9%) hanno colpito duro dalle parti del lavoro dipendente, e hanno fatto crescere il peso percentuale delle pensioni, più tutelate dai colpi della congiuntura. Risultato finale: nel 2006 il reddito medio da pensione si fermava al 68,5% del guadagno Irpef da lavoro dipendente, mentre dieci anni dopo il rapporto è cresciuto fino all’83,1 per cento.
Tre fenomeni aiutano a spiegare la dinamica. Le pensioni, prima di tutto, hanno sempre beneficiato di forme di aggancio all’inflazione, anche se diversificate nel tempo. Il governo Monti, in particolare, ha frenato parecchio sull’indicizzazione, con un meccanismo solo parzialmente attenuato dal successivo esecutivo Letta. Ma i blocchi si sono concentrati sui livelli medio-alti (in proporzione) di una piramide pensionistica molto schiacciata verso il basso. Il loro effetto si vede comunque nell’andamento anno su anno, perché i tassi di crescita del 3-4,6% del 2007-2009 non si sono più ripetuti.
Le pensioni, in ogni caso, non subiscono le riduzioni di valore a cui sono soggetti gli stipendi nelle aziende o nei settori in crisi, dove ammortizzatori sociali come la “solidarietà” (taglio di orario e stipendio) e la cassa integrazione ordinaria e straordinaria alleggeriscono le buste paga nel tentativo di salvare i posti di lavoro. E un terzo motore sulle medie è stato acceso dalla riforma previdenziale: alzando i requisiti per l’uscita, la legge Fornero porta alla pensione persone con un monte contributivo più elevato, e quindi con un assegno d’ingresso più alto di quello che avrebbero ricevuto andando a riposo prima. Sempre alla riforma previdenziale si deve l’assottigliamento della platea, che in dieci anni si è ridotta del 4,6 per cento.
Inversa appare invece agli occhi del Fisco l’evoluzione del mondo del lavoro. Dopo gli anni più bui fra 2009 e 2012, il numero dei contribuenti che ha dichiarato un reddito da lavoro dipendente è tornato a crescere, con un saldo che fra inizio e fine del decennio ha allargato i confini del 6,5 per cento. Anche questo ha aiutato a far crescere il monte dei guadagni, che nel 2016 è arrivato a 438,2 miliardi con un aumento nominale del 15,1% rispetto a dieci anni prima. In termini pro capite, però, ovviamente la curva è più piatta, e segna un +8,1% che si ferma sotto l’inflazione del periodo.
E la prova del nove di questa evoluzione arriva dal gettito Irpef, come mostrano le ultime serie storiche elaborate dal ministero dell’Economia. Nel 2000 i pensionati versavano il 20,8% dell’imposta, mentre quindici anni dopo sono arrivati al 28,2%; nello stesso periodo, la quota a carico dei dipendenti è scesa dal 56,7 al 53,5 per cento.
Il Sole 24 Ore – 31 marzo 2018