di Davide Colombo. Se oltre 36mila dirigenti della Pa vive in un equilibrio irrisolto tra bassa mobilità e remunerazioni eccessive, non sempre legate a obiettivi di performance misurabili e trasparenti, il grande corpo impiegatizio degli amministrativi e del personale tecnico-esecutivo (il 39% del totale del pubblico impiego) lavora in contesti organizzativi vecchi e nei quali, in troppi casi, il capitale umano è mal distribuito, debole e soprattutto poco mappato. Uffici cui si accede nel 36% dei casi ancora con il semplice obbligo scolastico, segno di amministrazioni che non hanno corso negli ultimi decenni al ritmo delle grandi trasformazioni tecnologiche. O dove si scopre che almeno il 10% dei ruoli che esigerebbero un diploma sono occupati da personale che non lo ha o dove solo il 18% è laureato mentre i posti per i quali sarebbe prevista la laurea sono almeno il 26%. Il rapporto. Il comunicato
La fotografia piuttosto inquietante di questa larga base trasversale del pubblico impiego arriva con l’ultimo Rapporto semestrale dell’Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, e parte da un’elaborazione di dati Rgs-Igop aggiornati a fine 2013.
Gli effetti del blocco di turn over e contratti
In una Pa segnata da oltre un quinquennio di blocco dei 15 contratti vigenti e da una forte riduzione del turn-over che ha prodotto un innalzamento dell’età media dei dipendenti verso i 50 anni (solo il 3% ne ha meno di 30), il Rapporto dimostra quanti siano ancor oggi i lavori previsti negli uffici pubblici con bassa qualificazione professionale o quali gli squilibri nella distribuzione del personale. In pratica una diagnosi degli effetti di un mancato calcolo dei fabbisogni attuali delle amministrazioni e del mancato riordino dei comparti previsto (ma mai applicato) da ormai vecchie riforme. Un primo quadro che mostra quanto siano vasti gli spazi per favorire un vero e proprio decollo della mobilità del personale.
Aran ha analizzato la distribuzione dei dipendenti del gruppo “amministrativi e tecnici” perché è il più vasto ma anche perché è lì che si trova il più alto numero di addetti dai ruoli più fungibili e quindi sostituibili con passaggi tra un comparto e l’altro. Si scopre che negli enti pubblici non economici (Inps e Inail, per esempio) a fronte di un 76% di lavori previsti con laurea solo il 31% degli occupanti è laureato (38% su 53% nelle Agenzie fiscali) ma che anche nei ministeri e nelle regioni i disallineamenti sono evidenti (21% contro 26% e 22% contro il 30%). Diversi i fattori che hanno prodotto questo “educational mismatch”: carriere interne in deroga ai criteri previsti per l’accesso tramite concorso, ricorrenti stabilizzazioni di personale precario, avventizio o assorbito da aziende in crisi (chi non ricorda il caso della Olivetti del 1992), o ancora, ma solo più recentemente, per l’adattamento di giovani laureati ad accettare mansioni inferiori pur di avere un primo impiego. Anche se i casi di “over education” nella Pa sono molto inferiori rispetto al privato: se sul mercato si trova infatti un 49% di laureati che s’è adattato a fare lavori cui potevano accedere anche senza titolo di studio in tasca, nella Pa si arriva ora al 29%.
Per aggiornare e razionalizzare questa componente estesa della Pa i tecnici Aran propongono un mix di interventi, da realizzare anche nella prospettiva di una riduzione del numero complessivo dei dipendenti pubblici, come previsto dal nuovo piano di spending review all’esame del Governo. Serve una vasta due diligente delle competenze richieste e possedute, un censimento dei mestieri e una nuova programmazione degli accessi di personale giovani con più elevato livello di istruzione. Ma servono anche piani formativi e di riconversione/riqualificazione interni, magari da accoppiare a misure di incentivo all’esodo (o prepensionamento) dei più anziani.
Da tre anni stipendi sotto l’inflazione
Nel Rapporto non manca il consueto aggiornamento sugli andamenti retributivi nel pubblico impiego che, al netto di alcuni elementi inerziali come il pagamento di vecchi arretrati in alcuni comparti, mostra la sostanziale tenuta del blocco contrattuale. Se nel 2011 (contabilità nazionale Istat) le retribuzioni pro-capite di fatto della Pa sono scese dell’1,1% (contro il +2% del settore privato con tasso di inflazione Nic effettivo del 2,8%) nel 2012 la crescita è stata dello 0,1% contro il +1,2% dei privati (Nic al 3%). A fine dicembre 2013, anno in cui sono stati rinnovati 17 contratti nel privato, le retribuzioni contrattuali sono cresciute dello 0% tendenziale nella Pa e dell’1,7% nel privato. Ormai da aprile del 2011 le retribuzioni contrattuali dei dipendenti pubblici dei comparti Aran (esclusi per esempio i vigili del fuoco o le forze armate) sono stabilmente al di sotto della curva dell’indice nazionale dei prezzi al consumo.
L’intervento del presidente Aran. Misurare il fabbisogno del personale Pa: un’impresa possibile
di Sergio Gasparrini*. Tra le cose più urgenti sulle quali intervenire per rendere le pubbliche amministrazioni più agili, moderne ed adeguate ai bisogni concreti dei cittadini, c’è la corretta identificazione della loro forza lavoro, sia in termini di numeri sia in termini di capacità professionali. Si tratta di un punto davvero centrale che supera ogni altra esigenza. Certo, dai tagli di spesa si ottiene un risultato immediato e tangibile e per questo si fatica ad attirare l’attenzione su un tema meno “mediatico” ma molto più concreto e di maggior respiro.
Si tratta evidentemente di una questione nota e a lungo declamata che, tuttavia, da oltre 40 anni non trova una concreta soluzione. Le amministrazioni, tutte, adottano un atteggiamento difensivo verso la tutela del proprio “perimetro” di competenze, ed in stretta connessione, rispetto alla quantità di personale. Ed ecco perché nei decenni fino a tutto il 2008 il personale pubblico è costantemente cresciuto e gli interventi riformatori sulle competenze delle pubbliche funzioni si sono stratificati determinando la creazione di nuovi dicasteri, enti ed agenzie ai quali sono state assegnate molte o, in certi casi, tutte le competenze di preesistenti organizzazioni, generando oltre ad una inevitabile confusione e discontinuità nell’azione amministrativa, anche una moltiplicazione dei costi.
Per ragioni ben note, negli ultimi anni (dal 2009) lo scenario è decisamente mutato ed il blocco delle assunzioni e della contrattazione collettiva nazionale ed integrativa hanno determinato un abbassamento molto rilevante del numero complessivo dei dipendenti e della spesa per retribuzioni. Si tratta tuttavia di un taglio lineare poiché tutte le amministrazioni (salvo talune eccezioni) si sono trovate a fare i conti con personale uniformemente ridotto a seguito dei pensionamenti.
A questo punto c’è da porsi la seguente domanda: è preferibile continuare con una politica di ulteriore contenimento della spesa oppure provare a rendere più produttiva ed efficiente la spesa esistente?
Va subito detto che le due cose non sono in antitesi. Ma mentre la prima, tagliare la spesa, è una scelta sempre disponibile e pronta all’uso, la seconda si presenta più impegnativa ma di portata straordinariamente più importante per la vita del paese. Significherebbe avere anche ospedali di qualità, scuole migliori, servizi alle imprese semplici e rapidi e via discorrendo.
Ma per fare questo è indispensabile assumere un atteggiamento critico molto forte che deve consentire a ciascuna amministrazione pubblica di rispondere con sincerità alla domanda se esista una relazione ragionevole tra quanti e quali dipendenti operano al loro interno e quanti e quali servizi esse offrono ai propri utenti (interni o esterni).
Fino ad oggi tutte le amministrazioni hanno sempre risposto di essere “sotto organico” di avere cioè ulteriore bisogno di personale, il che fa supporre che alla base di questa pretesa non via sia una concreta analisi dei propri fabbisogni, quanto piuttosto un atteggiamento prudente e difensivo, in un certo senso “razionale” in un contesto fatto di tagli lineari di spesa, blocchi assunzionali e vincoli gestionali con cui sterilizzare ogni possibile incremento di spesa.
Ebbene, la ricetta che si propone non è certo quella di riaprire i “cordoni della borsa” ma semplicemente quella di aiutare tutte le amministrazioni a fare i conti con serenità di giudizio sul giusto rapporto che deve esistere tra la quantità e la qualità (in termini di livelli professionali) del personale impiegato ed i servizi prodotti ed erogati. Per far questo è necessario introdurre standard di utilizzo delle risorse umane, definiti in relazione ai fabbisogni ed ai dati di domanda. In altri termini si tratta di dare evidenza al fatto, che a parità, mi si passi il termine improprio, di “ampiezza del mercato” coesistano amministrazioni con dotazioni di personale molto differenti. Ebbene già la semplice convergenza di quelle amministrazioni che si trovino in eccedenza rispetto al “valore standard” espresso come media potrebbe produrre recuperi di efficienza ben più ampi di qualsiasi taglio indiscriminato.
*Presidente Aran – Il Sole 24 ore – 29 marzo 2014