di Mario Sensini. Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.
La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.
Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.
Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.
Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate.
I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.
La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie (altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.
Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono. (Il Corriere della Sera)
Tasse retroattive, il vizio dei governi. Cambiare le regole fiscali in corsa oltre a danneggiare i cittadini non favorisce gli investimenti
di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti. Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre. Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici. L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%.
Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 — dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento —, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.
Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.
Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini.
Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.
Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro.
All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.
E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni. (Il Corriere della Sera)
La stangata è pure retroattiva. L’aumento della pressione sulle rendite dei fondi pensione scatta dal 1? gennaio 2014
Nella manovra dei «18 miliardi di tasse in meno» l’aumento della pressione sulle rendite dei fondi pensione scatta dal 1? gennaio… 2014. Un’operazione da mezzo miliardo
Non solo Matteo Renzi vuole aumentare le tasse sui rendimenti degli investimenti dei fondi pensione dei professionisti privati (dal 20 al 26%), e innalzare quelle sui guadagni realizzati con l’accumulo dei versamenti delle polizze integrative (dall’11,5 al 20%), ma intende anche farlo retroattivamente partendo dal 1? gennaio 2014, ovvero quando a Palazzo Chigi c’era ancora il suo predecessore Enrico Letta.
Spulciando tra le bozze (non bollinate) della legge di Stabilità 2015 è saltato fuori, infatti, che il balzello non si applicherà solo dal 2015, ma è addirittura retroattivo al gennaio scorso, in barba allo Statuto dei contribuenti e al buon senso. Casse private e fondi integrativi saranno sottoposti a un prelievo straordinario che, tirando le somme, supererà complessivamente i 500 milioni di euro. Prelievo che metterà in difficoltà le casse e che azzererà qualsiasi welfare di categoria (sussidi ai disoccupati, prestiti, case di riposo, ecc). Con un patrimonio di oltre 61 miliardi (di cui 8 investiti in titoli di Stato), le 19 casse previdenziali dei professionisti rappresentano del resto un tesoretto che fa gola a qualsiasi governo, ma che mai era stato così violentemente intaccato.
Da qualche anno, ai fini statistici Istat e Eurostat, il patrimonio privato delle Casse viene computato nelle voci in attivo dello Stato, come se si trattasse di asset pubblici. Ma si tratta solo di un giochino contabile (ideato dall’ex ministro Giulio Tremonti), per dimostrare a Bruxelles che i conti dell’Italia non sono/erano poi così disastrosi. In verità gli enti pensionistici rientrano nel «perimetro dello Stato», solo perché gestiscono un servizio pubblico (la previdenza), sono sottoposti al controllo dei ministeri vigilanti (Lavoro e Tesoro), ma neanche un euro di questi soldi viene dalle casse pubbliche. La privatizzazioni degli enti, e l’autonomia di gestione e investimento, è stata barattata decenni addietro (1995) dimostrando la sostenibilità attuariale dei conti previdenziali e garantendo così che la fiscalità pubblica non sarà costretta a coprire eventuali disavanzi. Di più: con la famosa ministra Elsa Fornero alle casse venne chiesto uno sforzo ulteriore: dimostrare la sostenibilità previdenziale e finanziaria a 50 anni.
Insomma, sono stati fatti i calcoli e applicati interventi e riforme per non far esaurire il patrimonio e garantire così, per il prossimo mezzo secolo, l’erogazione delle pensioni. Le casse hanno tutte (tranne una), superato questo stress test previdenziale, ottenendo dal ministero del Welfare il sigillo della sostenibilità.
Se ora però si cambiano le regole e si raddoppia quasi la tassa sui rendimenti degli investimenti (unico caso in Europa di doppia imposta), c’è il rischio che alcuni enti non riescano a far quadrare i conti. E senza la sostenibilità futura potrebbe scattare il commissariamento da parte del Welfare e quindi l’assorbimento (patrimonio incluso) nel SuperInps, che nell’immediato avrebbe solo da guadagnarci dall’ingoiare i patrimoni dei professionisti. Solo che dopo questa annessione le pensioni accumulate (e i relativi contributi e rendimenti) verrebbero regolate dall’Inps, quindi dal governo. Domani, 23 ottobre, i presidenti delle Casse riuniti nell’Adepp, decideranno le contromisure. E hanno già minacciato di vendere in blocco gli investimenti in titoli della Repubblica italiana (8 miliardi circa).
E che dire del salasso sulla previdenza integrativa? Per decenni (dal 1993 all’altro ieri), governi ed esperti previdneziali ci hanno fato venire il mal di testa ripetendoci che dovevamo mettere da parte qualcosa in più per la vecchiaia, perché con il sistema contributivo meno generoso del retributivo sarebbero statiti guai. Ora la legge di stabilità consente di dilapidare il trattamento di fine rapporto (Tfr) per campare oggi da cicale, fregandosene del futuro di povertà. L’aumento della tassazione dei proventi percepiti dai fondi pensione integrativi (patrimonio 2013 110 miliardi), passa infatti dall’11,5% (era l’11% fino ad aprile, primo scippo targato Renzi), al 20%, e avrà efficacia retroattiva dal 1? gennaio 2014. C’è di buono che per chi avesse già incassato al momento della pubblicazione della legge (fine dicembre 2014?) il tesoretto personale messo da parte (per i vecchi iscritti è possibile infatti chiedere la liquidazione di tutto quanto accumulato invece di incassare una rendita mensile), dovrebbe scattare una parziale compensazione, ovvero il fisco non reclamerà le maggiori tasse sui riscatti avvenuti nell’anno.
Anche per gli enti non commerciali e le fondazioni bancarie aumenterà retroattivamente l’imposta. In tutto Renzi è a caccia di 3,6 miliardi. Nero su bianco, sulle slide della scorsa settimana. (Libero)
22 ottobre 2014