Fuga dal lavoro. Gli aspiranti “quotisti” aspettano la pubblicazione delle norme per anticipare la pensione con almeno 62 anni e 38 di contributi come una manna previdenziale. E se alla fine “quota 100” sfondasse ogni tetto? Cosa accadrebbe cioè se ci fossero più uscite del previsto? Il timore non deve essere campato in aria, se poi anche la Ragioneria ha preteso un monitoraggio della spesa bimestrale quest’anno e trimestrale il prossimo. Così da intervenire, alle prime avvisaglie di scostamento dai 3,9 miliardi stanziati per il 2019, con tagli al ministero del Lavoro. Poi lineari a tutti i dicasteri, se non bastasse. Fino all’aumento delle tasse, così da garantire l’articolo 81 della Costituzione. Ovvero il pareggio di bilancio.
Ma questo pericolo esiste? Il governo stima in 350 mila la platea di potenziali quotisti. E ha disseminato il percorso di paletti, così da rendere indigesta o quantomeno non indolore l’uscita. Non si può cumulare la pensione con redditi da lavoro oltre 5 mila euro lordi annui. Ogni categoria di lavoratori ha una finestra donne, statali, privati, precoci, insegnanti – che allunga i tempi della pensione di 3, 6, 12, 18 mesi (e si parte da aprile). L’assegno è più basso anche di un terzo per i minori contributi versati, se si anticipa il massimo (cinque anni) rispetto al traguardo canonico dei 67 anni per la pensione di vecchiaia, fissato dalla Fornero. Agli statali viene garantita la liquidazione subito anziché fra 7 anni, un passo avanti. Ma solo fino ad un importo di 30 mila euro (la metà di quanto in media spetta) e con una parte di interessi – il 20% – da pagare alla banca che anticipa.
Eppure c’è grande voglia di fuga. Non solo nelle professioni più pesanti, che anzi risultano penalizzate dal requisito lungo dei 38 anni di contributi, come hanno riferito venerdì al premier Conte i leader di Cgil, Cisl e Uil parlando di edili e agricoli. Ma ovunque, nel pubblico come nel privato. Dai chirurghi agli insegnanti, dall’impiegato al funzionario.
Solo nel Lazio, grazie alla Roma ministeriale, in 30-40 mila potrebbero essere tentati. Il comune di Torino, come tanti enti locali in queste ore, teme uno svuotamento e prepara un maxi concorso per sostituire 800 dipendenti su 9 mila.
E non è solo stanchezza o disillusione. Chi ha 38 anni di contributi versati e un mestiere non gravoso potrebbe in effetti aspettarne altri 3 e uscire con “quota 41” – a prescindere dall’età anagrafica – ribadita ancora giovedì per il 2022 dal vicepremier leghista Salvini. A quel punto l’assegno non sarebbe neppure decurtato.
Invece no, le persone non si fidano. Sospettano che “quota 100” sia l’ultima scialuppa per svincolarsi dalla Fornero. Sanno che si tratta di una misura sperimentale, valida per tre anni. E che “quota 41” non è scritta da nessuna parte, ma solo promessa da un governo che nel 2022 potrebbe non essere più in sella, aver cambiato idea o travolto da oltre 50 miliardi di clausole Iva da disinnescare nel biennio 2020-2021.
Ecco dunque che “quota 100” diventa, con tutte le penalizzazioni, l’ultima spiaggia. La vera e unica chance – a carico del contribuente, 22 miliardi in tre anni – per staccare prima e godersi la terza e quarta età. Inevitabile quindi rammentare le stime che l’Ufficio parlamentare di bilancio ha consegnato in Parlamento il 12 novembre scorso. In quella audizione sulla manovra finanziaria – che poi di lì a poco sarebbe stata stravolta dalla riduzione del deficit dal 2,4 al 2% imposta dall’Europa – il presidente Giuseppe Pisauro affacciò la concreta possibilità che le uscite per “quota 100” fossero sottostimate dal governo. E le indicò in 475.338, il 35% in più. Un numero che ora va tenuto d’occhio. E che insieme alle uscite con i normali canali di pensionamento (vecchiaia, anticipata, precocità) porta i nuovi pensionati del 2019 quasi a quota 700 mila. Altro che il milione in tre anni di Salvini.
Repubblica