UNA “soluzione definitiva al problema del precariato”: anche aggiungendo la qualificazione “nella pubblica amministrazione”, la frase del premier Letta rimane un’iperbole. E questo spaventa perché l’uso dell’esagerazione retorica in politica spesso nasconde un trucco.
Trucco che non è difficile da trovare in questo caso: mentre il premier lamenta giustamente l’utilizzo del lavoro a tempo determinato nella PA come di una “scorciatoia” per darvi accesso “eludendo il concorso”, il provvedimento vetrato dal Consiglio dei ministri non fa che continuare a incentivare questa pratica garantendo ai precari nella PA un “concorso riservato “.
Riservato” è la parola cruciale: significa che se il concorso è ben fatto saranno assunti i migliori; ma i migliori tra i precari, non tra tutti coloro che hanno titoli per il tipo di lavoro in riferimento.
Il compromesso insomma è non solo politico ma è anche e soprattutto un compromesso sul merito; il che non è irrilevante vista l’inefficienza dei servizi pubblici in Italia.
Ancora una volta si guarda alla PA come se il suo compito principale fosse domandare lavoro, non offrire servizi.
Ma vi è un altro elemento nella decisione del governo che non può non essere notato: l’assunzione dei precari della PA per concorso riservato è un privilegio di cui essi godranno rispetto ai precari del privato, che certo non godono di alcuna protezione rispetto alla competizione, interna ed estera.
Con spirito di provocazione, vorrei sapere che ne pensa la Corte costituzionale, che di questi tempi ha bocciato, con motivazioni a volte discutibili, ogni tentativo di riallineamento dei privilegi dei dipendenti pubblici, di ogni grado e livello di reddito.
Ma detto questo, il compromesso potrebbe anche essere in sé accettabile.
Quantomeno si faranno concorsi invece di assunzioni all’arrembaggio di ope legis come spesso in passato.
La questione é però più generale dello specifico provvedimento.
L’intervento del governo infatti ha una proprietà purtroppo comune: garantisce vantaggi sostanzialmente clientelari oggi, relegando i costi politici al futuro: mai più precari nella PA (salvo casi particolari, naturalmente).
La politica e le istituzioni del paese non hanno mai saputo rispettare questo tipo di meccanismi.
Si pensi alla riforma delle pensioni del ministro Maroni che lasciò in eredità lo scalone alla legislatura successiva, durante la quale, naturalmente, il governo Prodi lo abolì.
Si pensi anche alla manovra del ministro Tremonti a inizio estate 2011: dei 47 miliardi di intervento solo 7 riguardavano il 2011 e il 2012; i restanti 40 andavano a carico di 2013 e 2014, cioè di una nuova legislatura (non è un caso che proprio quella manovra fu una delle cause scatenanti della crisi dello spread).
In un certo senso il nostro debito pubblico non è che l’effetto di continue politiche di questo tipo: spesa oggi e indebitamento per le generazioni future domani.
Se la politica in Italia non è in grado in generale di assumere costi decisi precedentemente per il bene del paese, perché credere che lo possa fare un governo che potrebbe durare quarantottore? Insomma, il governo ha messo in cantiere un meccanismo che, se andrà in porto, permetterà alla PA di assumere un po’ di precari.
Punto.
Altro che “soluzione definitiva”.
Forse non lo ha fatto nel modo peggiore possibile, dipenderà dai dettagli dei concorsi, ma lo ha fatto certamente male, senza una analisi strutturale di deficienze ed eccellenze della PA, e soprattutto delle sue reali emergenze (che il blocco del turnover necessariamente genera).
La Repubblica (ALBERTO BISIN) – 28 agosto 2013