Maresca: i giudici esercitano una discrezionalità non prevista dall’articolo 18. Pessi: reintegra solo per i licenziamenti discriminatori
Al di là del suo valore simbolico o totemico, come dice il premier, il nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori uscito dalla riforma Fornero (legge 92 del 2012) ancora non sembra garantire quella certezza del diritto che bene farebbe a imprese, lavoratori e investitori stranieri. A sostenerlo sono professori universitari eavvocati giuslavoristi che, in attesa dei primi dati di monitoraggio annunciati dal ministero del Lavoro sulla giurisdizione di primoesecondo grado sui licenziamenti illegittimi e dell’ormai prossimo pronunciamento della Corte di cassazione sulla corretta interpretazione dell’articolo 18, concordano nel chiedere ulteriori e questa volta decisive correzioni.
Perché? Perché la norma sui licenziamenti, frutto di eccessive mediazioni cui fu sottoposto il Governo Monti, lascia troppa discrezionalità ai magistrati i quali tenderebbero a muoversi un po’ troppo nella stessa direzione. La legge 92, spiega Arturo Maresca, ordinario di diritto del lavoro alla Sapienza, ha mantenuto in vita la tutela reale della reintegra in tre eccezioni: «Due applicabili nel caso del licenziamento disciplinare (l’insussistenza del fatto che ha dato luogo al licenziamento e la previsione del contratto collettivo che punisce questo fatto con una sanzione disciplinare conservativa) e l’altra al licenziamento per soppressione del posto di lavoro (la manifesta insussistenza del fatto che ha determinato il licenziamento). Ma i giudici spesso non si limitano ad accertare se il lavoratore ha o meno commesso il fatto per il quale viene licenziato, ma, esercitando una discrezionalità non prevista dall’articolo 18, valutano la gravità della condotta del dipendente e sulla base di ciò decidono se reintegrare il lavoratore o riconoscergli l’indennità economica».
A parlare di fallimento sostanziale della riforma Fornero rispetto all’obiettivo della certezza del diritto è anche Sandro Mainardi, ordinario di diritto del lavoro a Bologna: «sul versante sostanziale, avere differenziato le tutele a seconda del vizio del licenziamento impugnato, nell’alternativa tra reintegrazione e tutela solo economica, ha aperto la strada verso un’interpretazione giudiziale estremamente differenziata, comprensibilmente preoccupata a mantenere saldi gli arresti di una elaborazione ultraquarantennale, piuttosto che a cogliere le innovazioni introdotte da un testo normativo tutt’altro che chiaro e lineare dal punto di vista tecnico». La soluzione? «Si potrebbe pensare a un contratto a tutele crescenti, valido per tutti, con un indennizzo economico, in caso di licenziamento, che cresce con l’aumentare dell’anzianità aziendale, e da affiancare a una più robusta indennità di disoccupazione – sottolinea Roberto Pessi, professore di diritto del lavoro alla Luiss di Roma -. Sarebbe un compromesso accettabile, visto che più il rapporto di impiego è lungo, più il lavoratore è protetto, e si opererebbe un riequilibrio delle tutele tra grandi e piccole e medie imprese, conservando la reintegra solo per i licenziamenti discriminatori».
Del resto, oggi «la complessità è troppa», dice Giampiero Falasca, partner dello studio Dla Piper Italy: «Ed è aumentata dal fatto che il giudice può “riqualificare” un licenziamento per applicare allo stesso il regime che preferisce. In questi due anni però la norma ha comunque agevolato le conciliazioni che sono aumentate, sia perché l’asticella dei 24 mesi comunque “spaventa” i lavoratori, sia perché le aziende nonsopportano tanta incertezza». Anche per Fabrizio Daverio, dello studio Daverio&Florio: «La legge Fornero ha infranto il totem dell’art. 18 (cioè quello della reintegrazione obbligatoria in qualsiasi caso di licenziamento sbagliato). Nonè stata unacosa da poco; ma è rimasta l’incertezza per le aziende». Serve quindi garantire «certezza del diritto – afferma Michele Tiraboschi, professore di diritto del lavoro a Modena e Reggio Emilia -. Alla lunga potrebbe ripetersi quanto successo con il contratto a termine, col decreto Poletti, dove il sindacato del giudice è stato escluso in radice rendendo irrilevante la motivazione dell’assunzione in forma temporanea. Se non cambierà quindi l’atteggiamento tendenzialmente unilaterale della magistratura, la certezza piena del diritto per le imprese si avrà solo quando anche per l’atto di licenziamento verrà meno la motivazione, e dunque, la relativa sindacabilità, salvo non rendere effettivo anche in Italia l’arbitrato di equità».
Il Sole 24 Ore – 15 agosto 2014